Diari di Cineclub

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venerdì 12 maggio 2017

PIERRE BROUE': LA STORIA CONTRO "L'ASSASSINIO DELLA MEMORIA" di Francesco Giliani





PIERRE BROUE': LA STORIA CONTRO "L'ASSASSINIO DELLA MEMORIA"
 di Francesco Giliani



Rendiamo disponibile on line l'introduzione, scritta da Francesco Giliani per il capolavoro di Pierre Broué, "Comunisti contro Stalin", che abbiamo tradotto e pubblicato per la prima volta in lingua italiana. Per richiederlo scrivi a redazione@marxismo.net .



“Quando in Occidente apparve l’Arcipelago Gulag (1) di Aleksandr Solženicyn fu come un torrente che s’abbatté sulle menti, le conquistò o le intimidì, comunque le cambiò per sempre. Il 'saggio di inchiesta investigativa' era colmo di fatti, non confutabili; il tono era quello del profeta; lo sguardo sui campi di Lenin e Stalin aveva l’acutezza che possiedono gli occhi costantemente spalancati sul dolore. Occhi che scrutano dietro il sipario srotolato sulle cose; che le disvelano, come nell’Apocalisse quando ogni velo cade”. (2)

Con questi accenti lirici la giornalista Barbara Spinelli – attualmente eurodeputata eletta nella lista l’Altra Europa con Tsipras – commemorava nel 2008 la morte del dissidente sovietico Solženicyn, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1970. Nel fiume di inchiostro versato in quell’occasione, la stampa reazionaria celebrava il campione dell’anticomunismo. Gli intellettuali progressisti, per parte loro, si inchinavano al “profeta” che la sinistra, a loro dire accecata dall’ideologia e da pulsioni rivoluzionarie, non aveva capito. In tale agone, i liberali gareggiavano in adulazione con gli ex stalinisti. Anche Adriano Sofri, negli anni ’70 leader di Lotta Continua, partecipò a questo rituale:

“Anche fra noi, nella sinistra che si voleva nuova e rivoluzionaria, ci furono scaramucce rivelatrici: sortite che riconoscevano francamente a Solgenitsyn la sua grandezza personale letteraria e civile, e repliche a furor di popolo che lo additavano come un nemico della causa proletaria… Vi furono anche repliche più sobrie e ragionate, ma che mostravano la tenacia di un pregiudizio, per il quale i dissidenti e gli oppositori della dittatura sovietica da ammirare, amare e sostenere erano quelli che credevano nel vero comunismo e ne combattevano, anche a costo della libertà e della vita, il travisamento e il tradimento” (3).

In queste prese di posizione, tutte politiche, c’è quello che Broué chiamava “una sorta di terrorismo mediatico”, ovvero il tentativo di dimostrare che la rivoluzione genera il Gulag e l’orrore e che l’Unione Sovietica dei tempi di Lenin è la matrice del terrore staliniano. Per imporre questa tesi, sul piano storico si può scrivere qualsiasi sciocchezza senza dimostrarla, come fa la Spinelli quando parla dei “campi di Lenin”. Per infangare la memoria della rivoluzione d’Ottobre – e tramite ciò intimidire preventivamente chi volesse nuovamente dare “l’assalto al cielo” –, è necessario far calare una congiura del silenzio sulla storia e sull’esistenza stessa dell’Opposizione di Sinistra e sull’insieme di gruppi comunisti che negli anni Venti e Trenta lottarono contro la degenerazione burocratica e dittatoriale del regime sovietico sorto con la rivoluzione del 1917. In questo senso, secondo Broué, c’è in realtà una piena continuità tra lo stalinismo, che si è affermato sui cadaveri del “partito di Lenin”, e la propaganda borghese che identifica il comunismo con Stalin e cancella letteralmente dalla storia chi vi si è opposto in forme organizzate ed in nome della prospettiva egualitaria ed internazionalista propria del marxismo.

Miseria degli storici

Il testo di Broué che presentiamo è il primo ed al momento unico studio organico sulle opposizioni di sinistra allo stalinismo in URSS dal 1923 al 1941 a disposizione del lettore italiano. L’abbondante materiale d’archivio e le interviste ai pochi sopravvissuti a quel periodo storico impreziosiscono il lavoro e provano che la passione politica dell’autore, peraltro dichiarata programmaticamente, non gli impedisce di dispiegare con acume e puntiglio un metodo storico assolutamente rigoroso. Al contrario. A tal proposito, è importante segnalare la collaborazione alla ricerca di Broué da parte dell’ormai anziano Ivan Vrachev: questi, vera figura da tragedia greca, era un giovane e promettente dirigente dell’Opposizione a fine anni Venti e poi, dopo la capitolazione, divenne un delatore, superato soltanto da Karl Radek nel numero di denunce contro i suoi ex compagni. Scovato da Broué nella Mosca dei primi anni Novanta, Vrachev accettò di farsi intervistare ed affermò che fosse suo dovere testimoniare contro se stesso e contribuire a ristabilire l’onore di coloro che aveva tradito.

In Italia, per più di mezzo secolo, il peso dell’apparato del PCI e dell’ideologia togliattiana ha invece operato in senso contrario: infamare, cancellare o, in subordine, qualificare come irrilevanti le idee e la lotta contro lo stalinismo di Trotskij e dell’Opposizione di Sinistra. Dante Corneli è stato un comunista italiano che, rifugiatosi in URSS nel 1924 braccato da fascisti, giudici e polizia, fu internato nei Gulag con l’accusa di trotskismo – in effetti era stato membro dell’Opposizione tra il 1927 ed il 1929. Ne uscì vivo nel 1956, dopo un calvario durato 24 anni. Rientrato in Italia senza l’autorizzazione statale sovietica nel 1970 – ed i suoi familiari rimasti in URSS ne pagarono le conseguenze – Corneli non trovò nessun editore disposto a pubblicarne le memorie e le riflessioni politiche. Mondadori e Rizzoli gli chiusero la porta in faccia. Agli Editori Riuniti non presentò nemmeno domanda. Pubblicato dalla casa editrice La Pietra – politicamente vicina alle posizioni di Pietro Secchia – anche grazie alla pressione di Umberto Terracini, il suo testo venne censurato e a tratti alterato. (4) Dalla seconda metà degli anni Settanta Corneli iniziò a pubblicare a sue spese i propri testi, in totale una decina di volumi. (5) Tracciando la storia dell’emigrazione antifascista italiana in URSS negli anni Trenta, formulò pesanti accuse nei confronti di Palmiro Togliatti, Paolo Robotti, Vittorio Vidali e Antonio Roasio. Invitato nel 1983 da Enzo Biagi ad una trasmissione di storia trasmessa dalla RAI, ebbe infine la possibilità di dire pubblicamente in faccia ad Antonio Roasio, negli anni Trenta dirigente stalinista del PCI residente a Mosca e fedele a Togliatti, quali fossero le responsabilità dirette di quel gruppo dirigente tanto osannato nella condanna al Gulag di circa 200 comunisti italiani rifugiatisi per ragioni politiche in Unione Sovietica e scomparsi negli anni del terrore.(6)

Date queste premesse, c’è poco da lamentarsi, a sinistra, se a partire dagli anni Ottanta si sono potute sviluppare con un certo successo campagne politiche ed editoriali reazionarie sulla sorte dei comunisti italiani in Unione Sovietica. (7)

Deceduto nel 1990, Corneli non ebbe purtroppo il tempo di vedere che l’apertura degli archivi sovietici gli dava interamente ragione, anche riguardo le responsabilità del “Migliore”. La sua parabola è un caso di autentica e monolitica censura editoriale e culturale, della quale è corresponsabile anche la cosiddetta Nuova Sinistra. Ben diverso fu il trattamento riservato a Solženicyn in Italia – malgrado sia considerato vittima di una censura culturale secondo la vulgata accreditata da giornalisti a digiuno di conoscenze storiche, ma saccenti come Barbara Spinelli.(8) Corneli è stato un oppositore ed è rimasto fiero di esserlo stato fino all’ultimo dei suoi giorni. Nella cultura dominante, l’oppositore non può innalzarsi ai modelli politico-morali forniti dai “dissidenti”, Solženicyn in primis, descritti sempre dalla Spinelli quando scrive che “il dissidente non è l’oppositore, non possedendo gli strumenti per opporsi. Si esprime con la profezia, col mettersi in disparte, col prepararsi”. (9) Il dissidente, in sostanza, è l’espressione liberale ed idealizzata dell’individuo che si erge con la parola contro il tiranno, mentre l’oppositore, privato d’ufficio di qualsiasi capacità di profezia e dunque di previsione, si organizza e cerca di costruire una lotta politica e collettiva e proprio per tali orientamenti dev’essere sminuito.

Con lo scioglimento del PCI, la serietà degli studi accademici, comunque, non è migliorata. Alle persistenti tracce di togliattismo – consistenti in giustificazionismo, complottismo (ricordate Canfora che vaneggia del rapporto Krusciov manipolato dalla CIA?), rimozioni e dogmi – si è sovrapposta una visione liberale della storia ansiosa di affermare, ad ogni piè sospinto, che il comunismo ha fallito e la storia umana è arrivata alla sua piena e felice realizzazione. Si scimmiotta così, con qualche distinguo, il grottesco pronostico sulla “fine della storia” pronunciato nel 1992 dal professore di scienze (?) politiche dell’università di Harvard Francis Fukuyama, uno dei tanti apologeti ben retribuiti della classe dominante.

Il direttore della Fondazione Gramsci, Silvio Pons, allievo di Alessandro Galante Garrone, è un fulgido esempio della tendenza più recente dei discepoli formati dalla prima leva degli storici togliattiani. Nel pretenzioso dizionario del comunismo nel XX secolo compilato da Pons, i vuoti, le intrusioni e le “dimenticanze” sono degne della sciatteria di uno studente di storia particolarmente pigro, ma sono pure, in misura non sempre evidente, guidate dalla volontà di bollare come irrilevante tutto ciò che criticò lo stalinismo a partire da basi marxiste.(10) Quando lo storico del comunismo Luigi Cortesi, nel 2007, giudicò che “l’idea di ‘comunismo del XX secolo’ che esce dal Dizionario di Pons e Service è tanto parziale e misera da far pensare che giustamente i due curatori – storici che al relativo ambito di studio hanno dedicato un bel pezzo di vita – non ne abbiano più, o mai, ‘voluto sapere’” (11), Pons replicò piccato, dalle pagine del Corriere della Sera del 21 luglio 2007, che “il comunismo alternativo è puramente immaginario” – saremmo anche d’accordo nel criticare la cosiddetta pluralità dei “comunismi” ma non certo con l’idea, sottintesa da Pons, dell’equazione tra il “comunismo” ed il regime stalinista affermatosi in URSS – per poi aggiungere a mo’ di epitaffio sintomatico che “se Trotsky avesse vinto, il regime sovietico sarebbe stato probabilmente oppressivo quanto lo fu sotto Stalin”. Quest’ultima affermazione è un mediocre stratagemma per non fare i conti con le opere di Trotsky ed in particolare con la lucidissima ed a tratti profetica analisi contenuta ne La rivoluzione tradita. È anche un’affermazione che consente di bollare in poche righe come marginale l’esperienza organizzata di chi, assieme a Trotsky, lottò, s’organizzò e partecipò all’elaborazione teorica del fondatore dell’Armata Rossa. Tra queste figure c’è un vero e proprio gotha del periodo leniniano, a partire da Christian Rakovskij, unico bolscevico ad essere stato membro della direzione (Bureau) della II Internazionale e presidente dei commissari del popolo dell’Ucraina sovietica durante la guerra civile – giustiziato su ordine di Stalin nel 1941 mentre era già in corso l’invasione nazista dell’Unione Sovietica.

Del resto, lo stesso Broué era abituato all’ostracismo intellettuale. Quando nel 1991 uscì in italiano la sua straordinaria biografia di Lev Trotsky, lo storico Nicola Tranfaglia la recensì dalle pagine de La Repubblica scrivendo, da un lato, di “acquisizioni interessanti”, di “un grande acume” e via elogiando, senza però disdegnare, d’altro lato, di lanciare il peggiore anatema che può concepire un accademico per definizione equilibrato, ma anche di sicura fede progressista:

“Le pagine di Broué sulla battaglia teorica che oppone Trotsky a Lenin e ai bolscevichi [prima del 1917, NdR] sono di grande interesse e consentono al lettore di riflettere a fondo sulle divisioni non irrilevanti che separano quelli che furono senza dubbio i due capi storici della rivoluzione d’Ottobre. Anche quelle sulla guerra civile o sull’insurrezione di Kronstadt, in cui il leader ucraino ha un ruolo di primo piano come comandante dell’Armata Rossa, sono altrettanto nuove e interessanti, anche se nelle une e nelle altre si fa strada quello che è, a mio avviso, il maggior limite dell’opera pure fondamentale dello storico francese: l’essere rimasto fino in fondo un trotskista. Questa sua qualità non gli impedisce, a dire il vero, di farsi storico ma ostacola più di una volta una valutazione lucida delle contraddizioni cui il rivoluzionario ucraino andò in-contro nel suo tempestoso itinerario”. (12)

Dunque, “essere rimasto fino in fondo un trotskista” – e Broué fu tale fino alla sua scomparsa nel 2005 – ostacolerebbe la lucidità di giudizio di uno storico. Chissà se Tranfaglia ha mai formulato giudizi analoghi per suoi colleghi di orientamento politico liberale, socialdemocratico o cattolico conservatore. Ci domandiamo anche se Tranfaglia abbia mai pensato che l’aver appartenuto ai Democratici di Sinistra fino al 2004 e, in seguito, l’essere stato iscritto al neo-togliattiano Partito dei Comunisti Italiani (PdCI) – col quale fu eletto deputato nel 2006-2008 – per cercare infine una candidatura al parlamento europeo con l’Italia dei Valori di Di Pietro abbia potuto ostacolare la sua lucidità di storico…

Potremmo proseguire molto a lungo su questa strada. Ci pare, però, che vi sia ancora un nodo concettuale utile per chiarire i meccanismi che presiedono allo studio della storia del comunismo negli ambiti istituzionali: la conoscenza delle fonti dirette è pressoché nulla. Nessuno pensa che sia necessario studiare i testi di Lenin e Trotsky, o quelli concernenti la storia dei dibattiti teorici, politici e tattici nel Partito bolscevico e nei primi quattro congressi della III Internazionale (1919-1922). Se ne leggono, così, di tutti i colori. In L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, il curatore P.P. Poggio può così scrivere che Trotsky aveva “aderito obtorto collo alla NEP” – mentre la caldeggiò nel Comitato Centrale del Partito bolscevico sin dal febbraio 1920, ovvero prima di Lenin ed un anno prima della sua adozione; che dopo la rivoluzione Lenin “abbandonando il radicalismo di Stato e rivoluzione e del comunismo di guerra, avanzava aperture pluralistiche sul versante delle nazionalità, riconoscendo il diritto all’esistenza, autonoma dalla Russia, di numerose repubbliche, a partire dall’Ucraina”, dimostrando di non sapere né che il comunismo di guerra non c’entra nulla con Stato e rivoluzione, né che Sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione è del 1914 e nemmeno che Lenin già prima della rivoluzione criticava l’ipocrisia dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari quando presentavano alla Duma mozioni di solidarietà con l’Irlanda o l’India ma non si pronunciavano con altrettanta nettezza sulla questione dell’Ucraina e delle altre nazionalità oppresse dallo zarismo. Sull’analisi della burocrazia, Poggio alimenta altra confusione:

“La questione della saldatura tra partito e Stato, con la cancellazione di ogni spazio di democrazia e di libertà politica, viene affrontata da Trockij e dagli altri leader bolscevichi, compresi Lenin e Stalin, nell’ottica ristretta della burocratizzazione e dei sistemi più o meno brutali per fare in modo che la macchina che avevano costruito potesse funzionare senza lentezze e intoppi burocratici”.(13)

L’amalgama tra Lenin, Trotsky e Stalin è una perla di pressapochismo. La riflessione sulla questione della burocrazia è ridotta al problema degli “intoppi” e delle “lentezze” – concezione probabilmente condivisa da Stalin. Al contrario, gli scritti di Trotsky sulla burocratizzazione del regime sovietico sono numerosi e ricchi, analizzano l’usurpazione politica compiuta dalla burocrazia ai danni della classe lavoratrice e la concentrazione di privilegi in questa nuova casta dirigente; in Lenin, poi, si trovano, ed è utile ricordarlo, le prime analisi su quel fenomeno quando già nel 1920, in polemica con Bucharin, egli scrisse che nella Russia sovietica c’era uno “Stato operaio con due particolarità: una netta maggioranza contadina e una forte deformazione burocratica”. Ma i Poggio di questo mondo ignorano tutto questo. In fin dei conti, però, questa superficialità è funzionale all’ossessione politica di fondo di questi voluminosi lavori universitari, ben sintetizzata dallo stesso Poggio: “oggi l’inattualità di Trotsky è totale” e tutta la sua “azione politica e la sua teoria della rivoluzione ci appaiono appartenere a un tempo lontano, a un’epoca quasi incomprensibile, dove un enorme investimento e dispendio di energie si sono conclusi in un nulla di fatto”.(14) La battaglia per la verità storica sulla storia delle rivoluzioni e del comunismo è, dunque, un compito di fondamentale importanza per i marxisti. Il terreno è reso più complicato da decenni di menzogne staliniste, rafforzate e talvolta persino amplificate dallo strato di falsificazioni della storiografia borghese. Il libro di Broué, in questo senso, è una boccata di aria fresca.

Il posto dell’Opposizione di Sinistra nella storia del ’900

Questa ricerca di Pierre Broué ci permette di inquadrare adeguatamente l’importanza dell’Opposizione di Sinistra in Unione Sovietica. Innanzitutto, il lettore potrà comprendere con abbondanza di esempi la forza di quell’organizzazione, la sua capacità di conquistare la gioventù pensante dell’URSS fino al cuore degli anni Trenta e di collegarsi al malcontento operaio – per esempio, negli scioperi del 1932. Ultimo, ma non meno importante, Comunisti contro Stalin riesce a illuminare in modo vivo la capacità dell’Opposizione di produrre collettivamente, financo nei luoghi della deportazione e dell’esilio interno, un’analisi teorica sul “Termidoro” seguito all’Ottobre 1917, cioè l’epoca di reazione seguita all’isolamento della rivoluzione in un paese arretrato, ed una strategia politica per condurre la lotta contro quella medesima degenerazione, definita scientificamente da Trotskij come bonapartismo proletario. (15)

In altri termini, Comunisti contro Stalin ci aiuta a comprendere che il massacro degli oppositori comunisti perpetrato negli anni Trenta dalla burocrazia staliniana nasceva essenzialmente da una necessità politica, e non da una paranoia interpretabile psicoanaliticamente, finalizzata al consolidamento di una controrivoluzione che, avendo mantenuto formalmente gli stessi emblemi e non essendo giunta subito ma soltanto nel 1991 alla distruzione delle basi economiche create dalla rivoluzione, ha risucchiato e deviato su un binario morto le energie di svariate centinaia di milioni di persone che hanno lottato contro il capitalismo nel XX secolo.

I metodi di quella controrivoluzione non potevano che essere feroci, in conformità con l’obiettivo. La politica di Stalin non è separabile dai suoi mezzi – e si tratta di mezzi che disonorano il genere umano. I bolscevico-leninisti, così si chiamavano gli oppositori, non potevano essere convinti: se ne doveva occupare la polizia politica, con la tortura e le minacce allargate ai familiari, bisognava costringerli a confessare crimini immondi che infangassero loro stessi e persino la rivoluzione del 1917 – perché, secondo le accuse iperboliche dei processi-farsa di Mosca del 1936-1938, i principali dirigenti dell’Ottobre sarebbero stati, già a quell’epoca, agenti di potenze imperialiste straniere. Se non “confessavano”, occorreva giustiziarli nei sotterranei della Lubjanka (sede del KGB) a Mosca o nelle distese gelate di Vorkuta, a nord del circolo polare artico. In ogni caso, bisognava ucciderli tutti.

La data di nascita dell’Opposizione di Sinstra può essere fatta risalire alla lettera dei Quarantasei, pubblicata il 15 ottobre 1923 ed indirizzata al Comitato Centrale del partito, dopo una discussione collettiva che coinvolse numerosi dirigenti bolscevichi tra i quali Trotsky, Preobraženskij e Sapronov, leader dei “decisti”, la corrente più a sinistra nel partito.16 In quel testo, profondo, si comprendeva l’essenziale del processo in corso. Preobraženskij così difendeva quella lettera in un articolo pubblicato dalla Pravda:

“Il partito non è più, in larga misura, una collettività indipendente e viva, in grado di cogliere direttamente la viva realtà perché le è connesso attraverso migliaia di fili. Invece, osserviamo una crescente divisione, ma sempre nascosta, fra una gerarchia di segretari e la ‘gente tranquilla’, fra funzionari di professione e la massa di un partito che non ha ruolo nella vita comune”.(17)

La lettera dei Quarantasei, firmata da bolscevichi di primo piano,(18) produsse uno shock elettrizzante nel partito. Sosteneva la necessità di una battaglia per riportare la democrazia nel partito e nei soviet e trovò un sostegno maggioritario quasi ovunque laddove fu possibile presentarla e discuterla onestamente in vista della conferenza tenutasi tra il dicembre 1923 ed il gennaio 1924: tra gli altri, nell’organizzazione di Mosca, nella Gioventù Comunista – col suo Comitato Centrale quasi unanime –, nel prestigioso Istituto dei Professori Rossi, luogo di formazione dei più promettenti futuri quadri sovietici, in molte cellule dell’Armata Rossa e nel partito georgiano ed ucraino, già in rotta di collisione col nazionalismo grande-russo del nascente apparato staliniano. La frode organizzata nel conteggio dei voti dal segretario organizzativo di Mosca, designato da Stalin, lo screditò al punto da rendere necessario un suo successivo allontanamento da Mosca.

In vista del XV Congresso dell’allora PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) nel 1927, l’Opposizione Unificata – chiamata così dopo l’alleanza del nucleo del 1923 col gruppo di Zinoviev e Kamenev, coi “decisti” e con altri raggruppamenti minori – redasse una piattaforma politica alternativa nel mezzo di una campagna di violenza da parte dell’apparato ancora più forte di quattro anni prima. (19) Siamo alla vigilia delle espulsioni dal partito e delle prime deportazioni di oppositori. Alcuni anni dopo, essere oppositore sarebbe diventato un reato da codice penale. Malgrado questo clima politico ed un lavoro quasi del tutto clandestino, il metodo nella preparazione del XV Congresso è esemplare, come ricorda Pierre Broué nel presente volume:

“Con la volontà deliberata e cosciente di riallacciarsi alle migliori tradizioni del movimento operaio di cui rivendica l’eredità, questa piattaforma è redatta collettivamente e consultando i lavoratori.
I primi a scrivere, i coautori, sono Trotsky, Zinoviev, Kamenev, Smilga, Piatakov e qualche giovane, Fedor Dingelstedt, Grigorij Jakovin e Lev Sedov, il figlio maggiore di Trotsky. Bell’esempio di attenzione per la propria vita democratica quando si lotta per la sopravvivenza e di attenzione per la continuità, senza la quale non si può fare niente di importante.
La cura nell’effettuare un lavoro collettivo è strutturata nell’organizzazione del lavoro. Appena una prima bozza è finita, essa viene battuta a macchina, stampata e distribuita a tutti gli altri coautori; in seguito i testi emendati sono discussi da tutti i gruppi di oppositsionneri e da gruppi di operai che si fanno avanti, non necessariamente membri del partito. Tutti i testi sono rivisti e corretti prima di essere messi definitivamente nero su bianco. Quando gli pongono la domanda, Trotskiy risponde che hanno lasciato la loro traccia in quei documenti circa duecento persone, in un modo o nell’altro; quelli che li hanno letti senza lavorarci sono molti di più. C’è una squadra di studenti e studentesse per dattilografare senza sosta – un lavoro da forzati la cui animatrice è Nina Vorovskaia, amica di infanzia di Ljova (Lev Sedov) e figlia di un diplomatico bolscevico assassinato in Svizzera”.

L’apparato non assegnò alcun delegato all’Opposizione Unificata. Il congresso servì ai soli quattro membri dell’Opposizione presenti per salutare una platea di congressisti largamente composta da ostili funzionari di Stato e di partito, e per promettere che, espulsi dal partito, avrebbero continuato la battaglia per raddrizzarne il corso e con esso il cammino della rivoluzione. La stanchezza e la passività della massa dei lavoratori sovietici aiutarono, però, la burocrazia staliniana ad iniziare a stringere il cappio sugli oppositori, ai quali non bastarono le simpatie, ora ben documentate, ampie ma platoniche, di importanti settori della società sovietica.

L’Opposizione, tuttavia, continuò a rinascere, come l’araba fenice, per buona parte degli anni Trenta. Il vento emancipatore dell’Ottobre soffiava ancora e portava verso l’Opposizione migliaia di giovani, soprattutto proletari, che erano stati bambini o neonati nel 1917. Su questo punto, le pagine di Broué offrono affreschi sorprendenti. Entusiasta nello scoprire storici capaci di abbinare intelletto, coraggio e moralità, Broué ricostruisce la liquidazione ad inizio anni Trenta della scuola storica che tanto lustro stava dando all’URSS: Stalin demolì gli edifici che ospitavano l’Istituto di storia dell’Accademia comunista, l’Università comunista “Sverdlov” e l’Istituto dei professori rossi (IPR); a quell’epoca, ricorda Broué, i “giovani storici sovietici della Rivoluzione francese erano ammirati da Albert Mathiez il quale, davanti all’effervescenza dei loro lavori, suggeriva agli storici francesi di imparare il russo”. Tra loro, il più notevole era Jakov Staroselskij: “figlio di un banchiere, impegnatosi nelle Guardie Rosse a 17 anni, soggiornò a Parigi per la sua tesi sul Termidoro. Albert Mathiez e Georges Lefebvre lo consideravano come il futuro maestro della storia della Rivoluzione francese. Ma Staroselskij è un oppositsionner. Espulso dal partito nel 1927, è esiliato nel 1928 e in seguito viene imprigionato a Verchneural’sk. Lì, partecipa agli scioperi della fame, resta paralizzato e muore”. Nessuno di loro si salvò, compresi Rjazanov e Pokrovskij, vecchi-bolscevichi nonché storici di grande valore, che con la loro autorità avevano cercato di proteggere fino all’ultimo le nuove leve.

Ma la stessa liquidazione fisica dei bolscevico-leninisti non fu un affare semplice per Stalin. La loro organizzazione riusciva a mantenere o a ritessere i propri fili persino nei Gulag. La maggioranza dei prigionieri non “confessava” nulla malgrado torture degne della Santa Inquisizione di Torquemada. Ivan Nikitič Smirnov, l’eroe della guerra civile definito da Lenin la “coscienza del partito”, arringava quotidianamente gli altri prigionieri dalla finestra della sua cella; addirittura venne prodotto un giornale satirico dal titolo di Meno di un cane nel campo di Vorkuta dove i prigionieri trotskisti, soprattutto giovani, furono portati per essere fucilati a centinaia alla volta nel silenzio artico. Nel Gulag di Vorkuta ed in quello di Magadan, inoltre, si sono registrati, nel 1936, due dei più importanti scioperi della fame di detenuti nella storia dell’umanità. A Vorkuta, la lotta risultò temporaneamente vittoriosa nel conseguire il riconoscimento dello status di prigionieri politici.

Quegli scioperi furono condotti razionalmente, in continuità con la battaglia politica del quindicennio precedente, dopo aver discusso la piattaforma rivendicativa, le modalità d’azione ed il comitato direttivo – revocabile! – dello sciopero. Così l’armeno Sokrat Gevorkian, giovane promessa della generazione che nell’Ottobre aveva vent’anni, introdusse la riunione preparatoria tenutasi nel Gulag di Vorkuta:

“Rimanendo fino alla fine dei rivoluzionari proletari, non dobbiamo nutrire alcuna illusione sulla sorte che ci attende. Ma, prima di schiacciarci, Stalin proverà ad umiliarci il più possibile. Mettendo i prigionieri politici sullo stesso piano dei ‘criminali di diritto comune’, cerca di disperderci fra i criminali e di metterli contro di noi. Un solo metodo di lotta ci rimane in questo combattimento impari: lo sciopero della fame.
Con un gruppo di compagni, abbiamo già abbozzato la lista delle nostre rivendicazioni che molti di voi hanno già visto. Vi propongo dunque ora di discutere tutti insieme e di prendere una decisione”.

Quegli scioperi furono finalizzati a conquistare lo status di prigionieri politici, e dunque migliori condizioni di vita, per potersi conservare vivi in attesa di una ripresa della lotta di classe su scala internazionale, solo elemento dell’equazione, secondo le lucide analisi dei bolscevico-leninisti, in grado di invertire e rovesciare l’involuzione del regime sovietico.

Non furono dunque scioperi di natura prevalentemente testimoniale, come attesta la piattaforma rivendicativa adottata a Vorkuta nell’ottobre 1936 e che citiamo qui nella sua interezza:

“1- La separazione dei prigionieri politici dai criminali di diritto comune;

2- l’abolizione dei privilegi esistenti ancora che permettevano ai traditori di occupare posti più alti (capo brigata, controllore dei lavori, educatore ecc.) di quelli dei prigionieri politici;

3- l’assegnazione ad un lavoro secondo la professione di ogni prigioniero. Se ciò si rivelasse impossibile bisognava tener conto, al momento dell’assegnazione, delle capacità fisiche e dello stato di salute di ogni prigioniero;

4- la normalizzazione delle razioni alimentari, indipendentemente dagli standard raggiunti;

5- l’applicazione integrale della legislazione del lavoro (giornata di 8 ore, stipendio per ogni lavoro compiuto, giorni di ferie);

6- il diritto per i prigionieri di acquistare prodotti alimentari e prodotti di uso corrente al negozio del campo coi soldi del loro stipendio;

7- il diritto di intrattenere una corrispondenza regolare con le loro famiglie;

8- il diritto per le coppie sposate di vivere insieme all’interno del campo;

9- il diritto di abbonarsi a giornali e riviste pubblicati in Unione Sovietica”.

Saremmo però in errore se non cogliessimo un altro elemento nelle scelte degli oppositori. Ce lo ricorda, nelle sue memorie, Nina Gagen-Thorn, (20) sopravvissuta al terrore staliniano, quando evoca “i suoi amici oppositori che aderivano alla credenza sacra in base alla quale l’idea di comunismo, spazzata via e screditata da Stalin, doveva essere resuscitata col nostro sangue, e che l’hanno versato senza rimpianto”.(21) Ci sono, in questa consapevolezza, un’abnegazione ed uno spirito di sacrificio che attestano una moralità che fa onore al genere umano, ma persiste anche una riflessione politica razionale, proiettata su orizzonti non puramente nazionali e sui tempi lunghi della storia. Davanti al discredito nel quale lo stalinismo avrebbe gettato l’idea stessa di comunismo e di riscatto dallo sfruttamento e dall’oppressione capitalista – come non riconoscere che anche qui gli oppositori avevano ragione? –, il sacrificio cosciente di molte decine di migliaia di comunisti avrebbe dovuto costituire una “bandiera pulita” per le generazioni future. Anche in questo senso, dunque, la storia dell’Opposizione in URSS ha un significato che travalica la sua epoca e non è soltanto “russo”.

La gran parte di chi morì nei Gulag e, più in generale, durante il terrore staliniano degli anni Trenta perde, dunque, il profilo apolitico o anti-comunista che gli è stato astoricamente proiettato dalle opere di Solženicyn, spedito nel Gulag anni dopo quel massacro del quale non è stato testimone, ed anche, ci sia consentito sottolinearlo, quell’aura sacrificale tanto cara agli storici dei “totalitarismi”, alla continua ricerca di carnefici e vittime, ma che nulla ha a che vedere con tante biografie impregnate di coraggio, moralità e capacità d’azione. Come nel caso di quel giovane metalmeccanico ed iscritto alla Gioventù Comunista di Kharkov, Boris Vajnshtok, rimasto isolato dopo che nel 1927 decine di suoi compagni erano stati arrestati: al congresso dell’anno seguente prese la parola per esigerne la liberazione. “Non aveva dubbi che quello fosse il suo dovere”, scrive Broué. Senz’altro, sapeva quali potevano essere le conseguenze del suo atto; nell’URSS di quegli anni l’ingenuità era piuttosto rara. Ritrovò i suoi amici dieci anni dopo, nel campo della Kolyma, dove vennero fucilati tutti assieme.

Nel 1936, i detenuti politici della Kolyma e di Vorkuta fecero di tutto per rompere il loro isolamento, compreso il lancio in mare di una bottiglia contenente testi sulla situazione nei campi. Quell’isolamento, frutto dei rapporti di forza su scala internazionale, fu la tragedia dell’Opposizione russa. Su questo punto, lasciamo a Lev Sedov, figlio di Trotsky e curatore del Bollettino dell’Opposizione che comparve clandestinamente in Europa occidentale, alcune considerazioni generali contenute in un suo rapporto del 1934 al Segretariato internazionale dell’Opposizione di Sinistra Internazionale:

“La perdita di fede nella rivoluzione mondiale in seno al proletariato sovietico non può rafforzare una corrente che si basa su quella prospettiva […]. Proprio come non si può costruire il socialismo in un solo paese, così, in un solo paese, nell’isolamento totale dal mondo dei vivi, non si può portare avanti una politica internazionalista e rivoluzionaria […]. Ci si deve sorprendere che i bolscevichi russi resistano ancora perché, in Russia, ‘resistere’ non significa lottare con una prospettiva rivoluzionaria, ma sacrificarsi passivamente in nome dell’avvenire ed in nome della continuità storica dell’internazionalismo rivoluzionario”.

Malgrado tutto, hanno lottato.

La paura della rivoluzione: cuore e motore dello stalinismo

Lasciamo al lettore la scoperta – siamo sicuri che sarà intensa – dell’ultima parte del libro, dedicata ai “processi di Mosca”, agli anni più tetri e sanguinosi del terrore staliniano (1936-1938) ed alla lotta dei prigionieri comunisti nei Gulag di Stalin. Ci poniamo, però, un’ultima questione di fondo.

Perché tra gli storici e nella sinistra politica c’è una tendenza largamente prevalente che separa il terrore staliniano in URSS dalla coeva svolta verso la politica dei fronti popolari?

Preparata nell’agosto 1935 dal VII Congresso mondiale di un’Internazionale Comunista (22) controllata da Stalin e dalla polizia politica fin nel suo Presidium (una sorta di esecutivo ristretto), la svolta verso i fronti popolari fu applicata a passo di carica sin dal 1936 in Francia, Spagna, Belgio, Cina, India, Grecia, Stati Uniti ed in tutte le altre sezioni dell’Internazionale.

In Italia, anche uno storico come Paolo Spriano, decisamente più preparato dei suoi attuali epigoni, non sfugge a quest’approccio. Il discorso vale ancor più per Giuseppe Vacca. Per questi storici di osservanza politica togliattiana e/o berlingueriana, la tentazione di elogiare la svolta “democratica” e “nazionale” inaugurata dai PC con la politica del Fronte Popolare, è stata irresistibile. Quella politica è stata da essi considerata una vera e propria anticipazione, per quanto riguarda l’Italia, dei governi di unità nazionale sostenuti dal PCI di Togliatti nel 1944-1947 e della politica di “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana avanzata da Enrico Berlinguer dal 1973 alla fine degli anni Settanta. Il VII Congresso dell’Internazionale Comunista rappresenterebbe, in tale quadro, una rottura col dogmatismo e col settarismo staliniani tipici della fase del “socialfascismo” (1929-1934).

Il primo inconveniente sulla strada di questa interpretazione è che quella svolta presuntamente democratica coincide, in URSS, con un vero e proprio massacro di una generazione di comunisti, a partire da alcuni dei più stretti collaboratori di Lenin e dirigenti dell’Ottobre. Il secondo inconveniente, anch’esso non trascurabile, è che la stessa politica di Fronte Popolare viene portata avanti, al di fuori dei confini dell’URSS, con estrema ferocia contro chi dissente. L’esempio paradigmatico è l’assassinio di Andreu Nin, capo del POUM (Partito Operaio di Unificazione Marxista), rapito nel giugno 1937 lungo le Ramblas a Barcellona da agenti segreti sovietici e torturato sotto la regia di un generale sovietico fino alla morte, senza però che i boia riuscissero ad estorcere da Nin delle “confessioni” che permettessero di organizzare un autentico “processo di Mosca” in terra spagnola. Il corpo di Nin non è mai stato trovato; gli stalinisti ebbero il rivoltante cinismo di propagandare che Nin doveva essere scappato a Salamanca – in territorio controllato dai franchisti – o a Berlino, dove era al potere dal 1933 Adolf Hitler. Si trattava di alimentare su scala internazionale la velenosa propaganda di Stalin sull’hitlero-trotskismo.

Nin e la direzione del POUM avevano rotto con Trotskyed il Movimento per la IV Internazionale sull’opportunità di integrarsi nel Fronte Popolare ed entrare nel governo della Generalitat della Catalogna, nel quale Nin svolse il ruolo di ministro della Giustizia nel settembre-dicembre 1936. Tuttavia, Andreu Nin, ex segretario della CNT (Confederazione Nazionale del Lavoro, anarco-sindacalista) passato al comunismo sotto l’impatto della rivoluzione d’Ottobre, era stato amico di Trotsky e membro dell’Opposizione di Sinistra Internazionale, come molti militanti del POUM. Inoltre, il suo partito era la forza di massa più critica nei confronti del Fronte Popolare e con più quadri sperimentati potenzialmente in grado di porsi il compito della costruzione di un partito rivoluzionario, attraendo anche i settori dell’anarchismo più ostili alla collaborazione di classe a partire dal gruppo degli “Amici di Durruti”.(23) Fin dall’insurrezione proletaria del luglio 1936, sono gli aspetti più propriamente rivoluzionari della guerra civile spagnola ad inquietare Stalin, (24) assieme alla forza di organizzazioni operaie che non controlla, come il POUM, che nell’agosto 1936 protesta formalmente contro il primo “processo di Mosca”, o gli anarchici della CNT e della FAI (Federazione Anarchica Iberica).

Non è il solo Stalin a temere l’approfondimento degli sviluppi rivoluzionari in Spagna. I dibattiti nell’esecutivo dell’Internazionale Comunista sono molto interessanti. Nella riunione del settembre 1936, il francese André Marty mostra lo sviluppo delle iniziative rivoluzionarie del proletariato e aggiunge che bisogna contrastarle, anche se non frontalmente; esita persino – a quell’epoca e in quegli ambienti è un peccato capitale – a definire Nin come “trotskista” e immediatamente Moskvin (pseudonimo di Trilisser, uomo della NKVD), lo richiama all’ordine. Nella riunione successiva, nel novembre 1936, il francese Raymond Guyot, di ritorno dalla Spagna, ritorna sulle esitazioni di Marty e afferma che bisogna contrastare frontalmente questo pericoloso processo rivoluzionario. (25) L’obiettivo dei governi di Fronte Popolare, in Spagna e in Francia, è di imporre alla lotta della classe lavoratrice obiettivi d’ordine esclusivamente democratico-borghese e di frenare il processo rivoluzionario. Stalin non vuole un nuovo Ottobre né in Spagna né altrove, teme più di ogni altra cosa un movimento fuori dal suo controllo che potrebbe riaccendere la speranza rivoluzionaria anche in URSS, trasformando i rapporti di forza tra gruppo dirigente e classe lavoratrice a tutto beneficio dell’Opposizione. Inoltre, Stalin sta ricercando un’alleanza con l’imperialismo francese – il patto Laval-Stalin è del 1935 – e con quello britannico in funzione anti-germanica: il Fronte Popolare è la garanzia che l’Unione Sovietica è uno Stato “rispettabile” e non si pone più l’obiettivo di costituire il quartier generale della rivoluzione socialista mondiale. Al di fuori dei due paesi al centro della tempesta rivoluzionaria degli anni Trenta, non sorprende, dunque, che la politica di Fronte Popolare significhi negli USA l’assorbimento nel fronte rooseveltiano – nelle condizioni date il Fronte Popolare è il Partito Democratico medesimo –, in Cina l’adattamento ai nazionalisti borghesi del Kuomintang ed in India la subordinazione al partito del Congresso indiano di Gandhi, con una brusca sordina sulla rivendicazione d’indipendenza del paese da Sua Maestà britannica.

Ma la politica frontepopulista svolge anche, di riflesso, un’altra importante funzione nella strategia di Stalin: ogni problema è causato da Hitler, ripete fino alla nausea la propaganda del Cremlino – almeno fino al patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939.

In ultima analisi, così Broué sintetizza la relazione tra Fronte Popolare e terrore:

“Il nemico, l’unico del quale si ha diritto di parlare, a rischio della morte, è il ‘fascismo’. In realtà, è la ‘Germania eterna’ divenuta hitleriana, che prepara la guerra e perseguita gli ebrei, che massacra i militanti del movimento operaio e ha persino delle prigioni in cui si tortura e dei campi in cui si ammazza.
Questa minaccia aiuta l’URSS a distruggere il ‘nemico interno’, a perseguitare i suoi militanti operai oppositori ed a torturare e terminare di massacrare una generazione – un lavoro che sarà portato a termine da Hitler e dai suoi battaglioni”.

La repressione portata avanti in Spagna contro migliaia di rivoluzionari da ufficiali dell’esercito e agenti dei servizi sovietici possiede una sinistra somiglianza coi processi staliniani. Sin dal primo “processo di Mosca”, infatti, finiscono sotto le grinfie del procuratore generale dell’URSS Vychinsky, menscevico durante la rivoluzione e la guerra civile, non solo rivoluzionari che non hanno mai ceduto ma anche migliaia di oppositori comunisti che, una o più volte, hanno capitolato sotto i colpi multiformi della repressione staliniana e della demoralizzazione politica. Zinoviev e Kamenev ne sono gli esempi più noti. Tuttavia, l’aver capitolato non risparmia la vita a nessuno. Il terrore staliniano si pone il compito di sterminare chiunque possa incarnare agli occhi delle masse e della gioventù, anche con diverse cicatrici e segni di stanchezza, un legame con la rivoluzione ed il periodo di Lenin. Gli Zinoviev ed i Kamenev, proprio come i Nin fuori dall’URSS, sono perseguitati e giustiziati nonostante le loro esitazioni politiche o le vere e proprie capitolazioni. È una tabula rasa l’obiettivo della burocrazia guidata da Stalin, un morso alla giugulare del movimento rivoluzionario del quale si vuole spezzare ogni forma di continuità. Resta, infine, l’obiettivo centrale di questa “caccia all’uomo”: Lev Trotskij. In quegli anni, però, si addestrano i suoi assassini. Ed è sintomatico che Maria Mercader, legata ai servizi sovietici per i quali reclutò l’assassino di Trotskij, suo figlio Ramon, compagna dell’agente della NKVD Eitington, nel luglio 1936 salvò dal linciaggio popolare il generale Goded, capo delle forze reazionarie che risposero a Barcellona alla chiamata alle armi del generale Franco ma furono travolte dalla forza dei lavoratori trascinati da Durruti ed Ascaso e dovettero arrendersi.

L’assassinio di Trotsky nell’agosto del 1940, a Coyoacan in Messico, costituì un colpo terribile alle forze del marxismo rivoluzionario già duramente provate dalla repressione e al tempo impegnate nella costruzione della IV Internazionale, forza che non resistette politicamente alla prova della Seconda Guerra Mondiale e si disgregò negli anni dell’immediato dopoguerra. (26)

I tempi lunghi della storia umana hanno mostrato l’irreversibilità della bancarotta politica e morale dello stalinismo. La maturità nella visione storica e politica conquistata dai marxisti nel corso della lotta rivoluzionaria più profonda conosciuta sinora dall’umanità ha richiesto un costo altissimo. Libri come Comunisti contro Stalin hanno il pregio di restituire tramite spiegazioni razionali, ma anche affreschi drammatici, il senso di una lotta ed i sentimenti che provarono i suoi protagonisti.

Nel capitolo conclusivo della sua opera, Broué mette in chiaro che l’obiettivo del libro è contribuire a suscitare, nel lettore, la forza ed anche l’entusiasmo necessari per schierarsi “nel campo degli oppressi e dei combattenti di Vorkuta e di Magadan”. È un obiettivo che facciamo nostro.


30 Aprile 2017


Note:

1 Pubblicato per la prima volta in Europa occidentale nel dicembre 1973 a Parigi, Arcipelago Gulag esce per la prima volta in Italia nel 1974, edito dalla Mondadori.

2 B. Spinelli, “Il profeta nel Purgatorio del Gulag”, La Stampa, 5 agosto 2008.

3 A. Sofri, “La sinistra italiana e il fantasma del Gulag”, La Repubblica, 6 agosto 2008.

4 D. Corneli, Il redivivo tiburtino, Milano, La Pietra, 1975.

5 L’elenco delle opere è rintracciabile in appendice alla voce biografica Dante Corneli (1900-1990) su Wikipedia all’indirizzo elettronico https://it.wikipedia.org/wiki/Dante_Corneli.

6 Si veda D. Corneli, Elenco delle vittime italiane dello stalinismo (dalla lettera A alla lettera L), tipografia Ferrante, Tivoli, 1981 e D. Corneli, Elenco delle vittime italiane dello stalinismo (dalla lettera M alla lettera Z), tip. Ferrante, Tivoli, 1982.

7 Si veda, ad esempio, G. Lehner con F. Bigazzi, La tragedia dei comunisti italiani. Le vittime del Pci in Unione Sovietica, Milano, Mondadori, 2000.

8 Ha avuto molta circolazione, negli ultimi anni, un articolo dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scritto nel 1974 per Rinascita, rivista teorico-culturale dell’allora PCI, al fine di approvare senza particolari entusiasmi – è l’epoca dell’euro-comunismo e del “compromesso storico” – l’espulsione di Solženicyn dall’Unione Sovietica. L’articolo è greve e brežneviano come il suo autore, tuttavia, ci pare un po’ poco per parlare di censura rispetto ad un autore pubblicato da Mondadori.

9 B. Spinelli, ibidem.

10 Così, mentre sono inserite le biografie di mediocrità staliniste come Husak, Zivkov o Bierut, non compaiono le voci di Sverdlov, Nadežda Krupskaia, Tomskij (capo dei sindacati sovietici al tempo di Lenin), Rjazanov (storico e fondatore dell’Istituto Marx-Engels di Mosca, giustiziato nel 1938), Stučka e Pašukanis (i primi due commissari del popolo alla giustizia e teorici del diritto sovietico) ma anche, al di fuori dell’URSS, Victor Serge, Boris Souvarine, Paul Levi, l’indiano Roy, Pannekoek, Sylvia Pankhurst e molti altri. Sull’Italia, segnaliamo che, mentre abbiamo diritto alla voce Giorgio Amendola, non sono presenti figure come Serrati, Tasca, Terracini e, colmo di malafede e pressapochismo, nemmeno Amadeo Bordiga, principale dirigente all’epoca della fondazione del PCdI nel 1921. Ovviamente, la IV Internazionale non merita una voce. Al contrario, sono inserite voci che non capiamo cosa mai c’entrino con un dizionario del comunismo: da Martin Buber ad Hannah Arendt, icona degli anti-totalitari. Si veda S. Pons, R. Service (a cura di), Dizionario del comunismo nel XX secolo, 2 vol., Torino, Einaudi, 2006-2007.

11 L. Cortesi, “È morto il ‘socialismo reale’, non il comunismo”, “Il Ponte”, maggio-giugno 2007.

12 N. Tranfaglia, “Quanti segreti nell’archivio di Lev Trotsky”, la Repubblica, 27 novembre 1991.

13 P.P. Poggio, introduzione a P.P. Poggio (a cura di), L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, Milano, Jaca book, 2010.

14 Ibidem.

15 L. Trotsky, La rivoluzione tradita, Milano, AC Editoriale, 2000.

16 Una significativa selezione dei testi che lanciarono la battaglia dell’Opposizione di Sinistra del 1923 è contenuta in Trotsky, Nuovo corso, Roma, Samonà e Savelli, 1965.

17 Pravda, 28 novembre 1923.

18 Tra i firmatari ricordiamo, tra gli altri, Preobraženskij e Serebriakov (entrambi ex segretari del Comitato Centrale del partito), Smirnov, Piatakov, Muralov, Sosnovskij e Antonov-Ovseenko (responsabile militare della presa del palazzo d’Inverno nel 1917), tutti liquidati durante il terrore staliniano degli anni Trenta. Trotskij, che era ancora membro dell’Ufficio Politico, non firmò per ragioni tattiche discusse collettivamente. Il testo della Lettera dei Quarantasei è reperibile in italiano in A. Di Biagio (a cura di), Democrazia e centralismo. La discussione sul “nuovo corso” nel partito Comunista Sovietico (ottobre 1923-gennaio 1924), Milano, il Saggiatore, 1978, pp. 57-64.

19 Quel testo è disponibile in italiano in L. Trotsky, G. Zinov’ev ed altri, La piattaforma dell’opposizione nell’Urss, Roma, Samonà e Savelli, 1969.

20 Nina Gagen-Thorn (1900-1986), figlia di un barone, fu una poetessa e scrittrice sovietica. Nel 1934 dirigeva la rivista “Etnografia sovietica”. Durante le purghe venne arrestata e spedita al campo della Kolyma dove rimase tra il 1936 ed il 1942. Nel 1947 fu esiliata in Mordovia. Uscita dall’universo concentrazionario stalinista nel 1954, ricominciò a lavorare come etnografa a Leningrado e non emigrò mai in un paese capitalista.

21 Si veda la bibliografia di Nina Gagen-Thorn citata nelle note dei capitoli XI e XXIII del presente volume.

22 Per una ricostruzione del VII Congresso dell’Internazionale Comunista (IC), si veda P. Broué, Histoire de l’Internationale Communiste. 1919-1943, Parigi, Fayard, 1997, pp. 649-673. L’insieme del testo, disponibile soltanto in francese, costituisce la trattazione più rigorosa e completa della storia dell’IC.

23 Per una valutazione sulla parabola politica degli “Amici di Durruti” e sui loro rapporti politici coi bolscevico-leninisti spagnoli si veda P. Broué, “Les ‘Amigos de Durruti’”, Cahiers Léon Trotsky, 10 giugno 1982, pp. 109-114 [trad. it. disponibile sul sito web www.marxismo.net all’indirizzo http://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/storia-delle-rivoluzioni/179-gli-amici-di-durruti.)

24 Per una trattazione della rivoluzone spagnola del 1931-1937, rimandiamo al pregevole libro scritto nel 1938 dal dirigente trotskista statunitense Felix Morrow, Rivoluzione e controrivoluzione in Spagna, Milano, AC Editoriale, 2016.

25 Si veda P. Broué, Histoire de l’Internationale Communiste. 1919-1943, cit., p. 692.

26 Si veda P. Broué, Histoire de l’Internationale Communiste. 1919-1943, cit., p. 692.


dal sito  http://www.marxismo.net/index.php








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