Diari di Cineclub

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Rivista Cinematografica online e gratuita

venerdì 31 ottobre 2014

UN DIBATTITO DELLA QUARTA INTERNAZIONALE SULL'IMPERIALISMO






UN DIBATTITO DELLA QUARTA INTERNAZIONALE SULL'IMPERIALISMO



1) Caos geopolitico e relative implicazioni:

appunti per una riflessione collettiva


di Pierre Rousset



Il disordine climatico rappresenta un nuovo elemento strutturale provocato dal riscaldamento atmosferico d’origine umana (in questo caso, il capitalismo). L’attuale caos geopolitico costituisce anch’esso un elemento strutturale nuovo ingenerato dalla mondializzazione capitalistica e dalle scelte imposte dalle borghesie imperialiste tradizionali. In effetti il caos c’è, e ne sono profonde le cause.

Fin dal 2003 (perlomeno),[1] abbiamo cercato di afferrare le conseguenze in tutti i campi della mondializzazione capitalistica, ma oggi è indispensabile davvero cercare di fare il punto con maggior sistematicità sulle cause del caos geopolitico, sulle dinamiche della crisi in corso, nonché sull’attualizzazione delle risposte che occorre fornire a una situazione mondiale per tanti aspetti inedita. Questi appunti hanno lo scopo di affrontare queste questioni per alimentare una riflessione collettiva.[2] Non pretendono di essere esaustivi – altri argomenti sono affrontati in altri testi da altri compagni. Si basano spesso su analisi già condivise, ma provano a spingere più avanti la discussione sulle loro implicazioni: non ci si può limitare a ripetere sempre allo stesso modo quel che dicevamo in precedenza. A tale scopo, a rischio di semplificare eccessivamente delle realtà complesse, si “epurano” gli sviluppi in atto, perlopiù incompiuti, per valorizzare quel che sembra nuovo.

martedì 28 ottobre 2014

INSEGNAMENTI DELLA CRISI DELL'EBOLA






INSEGNAMENTI DELLA CRISI DELL'EBOLA


di Vicente Pertegaz, Begona Bevia, Manuel Giron, Carlos Esquembre e Mercedes Martinez, in rappresentenza dell'Associazione Civica in Difesa della Sanità




Il tipo di virus dell’Ebola, connesso all’emergenza sanitaria in atto in Africa, provoca una mortalità del 70%. Non esistono farmaci o prevenzioni specifiche. La diagnosi precoce è l’elemento chiave per rispondere all’infezione e identificare le persone con le quali si è stati a contatto. Stando alla squadra di esperti dell’OMS per l’Ebola, il tasso di contagio, da 4.500 persone a metà settembre passerà a 20.000 agli inizi di novembre e, secondo il Centro di controllo statunitense per le malattie, a gennaio del 2015 potrebbe arrivare a colpire 1 milione di persone.

Questa crisi umanitaria senza precedenti è restata occulta ed è venuta pubblicamente alla luce a partire dalla prima infezione contratta da un europeo, a Madrid. Di fatto, la discussione pubblica si arresta esclusivamente sul terreno della nostra protezione locale, che è un atteggiamento politico e sanitario insensato: L’Africa continua a rimanere nell’oblio, continua ad essere terreno riservato delle multinazionali, di governi di rapina e dei bisogni di materie prime del mondo sviluppato. Il Fondo Monetario Internazionale, l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina (s)governano nei paesi africani colpiti. Questi paesi si sono visti nell’impossibilità di sviluppare servizi pubblici e le scarse risorse sono state privatizzate (inaccessibili quindi alla popolazione in generale). Come ha segnalato un editoriale del New England Journal of Medicine, non è il virus,ma il contesto ad aver consentito il micidiale sviluppo dell’epidemia. E questo è il primo degli insegnamenti.

La risposta del governo spagnolo di fronte a un’emergenza internazionale è consistita nel riportare indietro due persone malate (ad esclusione di altre che vengono private dell’assistenza in base al decreto 16/2/012), senza disporre di un solo ospedale con idoneo livello di protezione, mettendo così a rischio la salute della popolazione in genere e del personale sanitario in particolare (incluso quello addetto alle pulizie). L’unico ospedale che avrebbe potuto accogliere questi casi era da più di un anno in via di smantellamento (chiuso il servizio, e professionisti addestrati sparpagliati altrove); per giunta, in piena crisi, si è andati avanti nel processo della trasformazione in un centro di malati cronici, per occuparsi di quello che per i centri privati non è conveniente. E questo è un secondo insegnamento: la privatizzazione distrugge i servizi e le capacità di risposta (sia nel comune di Madrid o in quello valenzano, sia in Africa occidentale). Il “controllo del passivo di bilancio” (i tagli sociali) e l’assunzione pubblica del pagamento del debito creato dalle grandi banche e dagli istituti finanziari sono i meccanismi applicati tanto qui come là per tagliere e privatizzare.

La terza lezione ha a che vedere con le cure e i vaccini. Le epidemie di Ebola sono note fin dal 1976, e nonostante il tempo trascorso e la portata letale del virus, non si sono sviluppati farmaci e vaccini per la prevenzione. Adrán Hill, lo scienziato incaricato di dirigere la risposta della Gran Bretagna alla pandemia di Ebola, ha scagliato un attacco demolitore alla grande industria farmaceutica. Alla domanda sul perché non ci fosse un vaccino, Hill ha risposto: 
“Ebbene, chi fabbrica i vaccini? Oggi, la produzione commerciale di vaccini è monopolizzata da quattro o cinque mega-imprese - GSK, Sanofi, Merck, Pfizer -, che figurano tra le principali multinazionali del mondo. Il problema è che, anche se si scopre la via per creare un vaccino, se non c’è un grande mercato, le grandi imprese ritengono che non vale la pena”.
Migliaia di morti (4.033 alla data del 10 ottobre) si sarebbero potuti evitare fin dall’inizio del manifestarsi dell’infezione se si fosse sviluppato un vaccino, il che, a giudizio del professor Hill, sarebbe stato possibile. Era un’epidemia evitabile. La ricerca e la produzione di vaccini e farmaci essenziali non può restare nelle mani dell’industria privata, esige un’industria farmaceutica pubblica.

Ci saranno ancora epidemie e ricomparse di Ebola e di altre infezioni nuove o riemergenti. La nostra risposta ad avvenimenti come questo è ancora lenta, mal finanziata e mal preparata. I servizi sanitari debbono avere buone dotazioni, essere pubblici, sotto controllo della cittadinanza e orientati alla prevenzione. La prestigiosa rivista scientifica Lancet metteva già in guardia, alcuni mesi or sono: i tagli del governo spagnolo possono avere “gravi conseguenze per la salute della popolazione”. Dal 2010 i bilanci della sanità hanno subito tagli per un totale di 19 miliardi di euro e quelli della ricerca per più di 9 miliardi.

Per far fronte all’attuale epidemia di Ebola, Cuba sta dispiegando in Sierra Leone il maggior contingente sanitario che sia stato inviato da uno Stato, con 165 medici e infermiere. È questo l’esempio da seguire per intervenire immediatamente contro l’Ebola. L’Africa deve uscire dalla condizione di sterminio cui la sottopongono il FMI, l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina.

E dobbiamo anche ricordare in questi giorni la figura del dirigente africano Thomas Sankara, il presidente del Burkina Faso, assassinato il 15 ottobre 1987 per essersi rifiutato di pagare il debito odioso che impediva al suo popolo di venir fuori dalla povertà e per essersi scontrato con il FMI. A differenza degli attuali tecnocrati dello Stato spagnolo, che (mal)governano la sanità giocando con la vita di milioni di persone, resta anche questo un esempio da seguire.



19 ottobre 2014





Si veda anche Ebola ed altri virus, e Ebola: un virus nel cuore delle tenebre


dal sito Movimento Operaio


La vignetta è del Maestro Mauro Biani





lunedì 27 ottobre 2014

LE "NUOVE" PROPOSTE DI RENZI IN MATERIA DI LEGGI ELETTORALI di Aldo Giannuli






LE "NUOVE" PROPOSTE DI RENZI IN MATERIA DI LEGGI ELETTORALI
di Aldo Giannuli



Una certa enfasi mediatica ha accompagnato una nuova proposta di Renzi al M5S in materia di legge elettorale, parallelamente all’altra proposta di scambio Csm-Corte Costituzionale al M5S. La simultaneità delle due proposte lascia intendere qualcosa che va al di là delle questioni di merito, per prefigurare un diverso rapporto maggioranza-opposizione. Il che sarebbe anche auspicabile,se andasse nel senso di una maggiore correttezza istituzionale che mettesse da parte alcune recenti arroganze e sciovinismi di maggioranza. Ma l’impressione è che la realtà sia diversa e più prosaica: constatata la battuta d’arresto del patto del Nazareno, per l’indisciplina dei gruppi parlamentari di Fi e del Pd, valutata la prospettiva di ritiro del Ncd dalla maggioranza, preso atto dell’incombente scontro con la Commissione Europea e con la Bce, Renzi cerca di prepararsi ad una crisi di governo ed a come uscirne.

In caso di crisi, le strade sono due: cercare un a nuova maggioranza per andare ancora avanti (magari sostituendo Fi al Ncd) o andare a nuove elezioni. La prima strada potrebbe rivelarsi molto rischiosa, anche perché potrebbe accelerare i processi di separazione della minoranza del Pd, senza dire della tenuta di un esecutivo del genere di fronte ad una offensiva europea. Pertanto, l’ipotesi delle elezioni potrebbe rivelarsi molto più concreta del previsto, ma, in questo caso si porrebbe il problema di come andare alle elezioni e quando. Per cui, lasciamo da parte la questione del ventilato baratto Csm-Corte Costituzionale e concentriamoci sulla questione della legge elettorale.

venerdì 24 ottobre 2014

NON C'E' SOLO L'ARTICOLO 18 ...





NON C'E' SOLO L'ARTICOLO 18 ...


Alla fine, lo ha dovuto ammettere anche Draghi: la crisi in Europa non è finita e le timide riprese di alcuni paesi sono già a rischio. Nonostante altri 1000 miliardi di liquidità (!) messe a disposizione dalla BCE per le banche, la quantità di crediti e titoli ‘tossici’ ingurgitata dal sistema creditizio è tale che investimenti e consumi continueranno a precipitare. In Italia il quadro è ancora più drammatico: disoccupazione giovanile al 44%, crollo dei redditi e calo dei prezzi, servizi in frantumi, pressione fiscale (anche sui lavoratori) ai massimi. Il Governo, già in fase di logoramento nonostante il sostegno dei media, di tutto il quadro istituzionale e dei principali esponenti padronali, decide di giocare l’attacco ai diritti dei lavoratori in cambio di qualche margine di manovra con l’Europa per ritardare nuovi interventi su sanità, pensioni, scuola e servizi.

Il cosiddetto Jobs Act, una legge delega che elenca genericamente alcuni indirizzi per ulteriori norme sul mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali e la contrattazione, nasce dunque in un panorama di tensioni nell’establishment europeo (vedi la sfuriata francese contro il rigore tedesco), di debolezze del quadro politico ed economico nazionale, ma non per questo è meno pericolosa. Non si tratta solo dell’Art. 18, ma di un’insieme di provvedimenti che mira a distruggere definitivamente quanto resta dello Statuto dei Lavoratori per affermare l’idea che il comando in fabbrica e in ufficio è solo padronale e che le condizioni di lavoro dipendono esclusivamente dal mercato e dalle esigenze dell’impresa. Fuori dai cancelli lo Stato pagherà, nei limiti dettati dai bilanci, una sorta di sussidio di disoccupazione, a condizione che il disoccupato si presti a minori guadagni e a qualsiasi mansione.

La ‘semplificazione burocratica’ di tutti gli adempimenti a carico del datore di lavoro e dei controlli sulle imprese (sicurezza inclusa) sono una revisione tutta a favore di queste ultime. Il controllo a distanza del lavoratore, più semplice ed arbitrario, è il ritorno ai guardiani degli anni ‘50. Il demansionamento e, più in generale, la revisione delle tipologie contrattuali, significa cancellare l’idea di un contratto nazionale che garantisca tutele uguali per tutti a favore di una ulteriore frammentazione dei lavoratori. Rivedere gli ammortizzatori sociali abolendo alcune tipologie di cassa integrazione ‘senza aggravio di costi’ vuol dire estendere il trattamento di disoccupazione a nuova figure, ma ridurre l’entità e la durata dell’assegno. E infine, abolire l’Art. 18, per quanto nel testo della legge non si dica esplicitamente, significa sopprimere l’ultima tutela possibile del lavoratore rispetto al licenziamento ingiustificato. In Italia si licenzia eccome, anche se per pudore si dice ‘mettere in mobilità’, collettivamente e individualmente. Il punto è che il padronato vuole poterlo fare in modo arbitrario e senza limitazioni. Il deterrente del diritto al reintegro, già minato dalla Legge Fornero, è inaccettabile per un padronato che vuole avere il pieno controllo del ‘fattore lavoro’ e tenere in ostaggio e sotto ricatto i dipendenti. Che in ciò vi sia qualcosa di nuovo e di ‘riformista’ solo la propaganda da parte di mass media totalmente asserviti può suggerirlo. In che modo così si aiutino precari e disoccupati, giovani e meno giovani, è un ulteriore mistero, visto che nessuna delle 46 tipologie contrattuali ‘flessibili’ in uso viene abolita e anzi si incentiva ulteriormente l’uso del voucher e la privatizzazione della ricerca di lavoro.

Eppure Renzi sa che su questo terreno ha delle carte da giocarsi. Sa che puntando sulla divisione tra giovani e vecchi, tra ‘garantiti’ e non, può mettere a nudo tutte le contraddizioni di una sinistra che dai tempi di Treu alimenta l’idea di una flessibilità ‘buona’. E quelle di un sindacato che sul terreno della precarietà e dei diritti ha letteralmente segato l’albero su cui sedeva attraverso la firma di accordi pessimi e un burocratismo che gli sono costati la fiducia e la credibilità agli occhi dei lavoratori.

Tuttavia a sinistra e nel sindacato volendo potrebbe non essere troppo tardi per lottare coerentemente, senza tentennamenti e subalternità, contro il Jobs Act e rimettere al centro l’idea di dividere meglio tra tutti il lavoro che c’è e che aumentare le retribuzioni è una priorità. A ottobre e novembre sono in programma scioperi delle confederazioni di base e una manifestazione nazionale della CGIL. Senza nessuna illusione verso i Bersani, le Camusso, i Fassina, noi ci saremo. Su questi contenuti.



18 ottobre 2014


dal sito Contro Corrente


La vignetta è del Maestro Mauro Biani






giovedì 23 ottobre 2014

IL MASSACRO DI GAZA: HAMAS NE ESCE VINCENTE, MA A CHE PREZZO! di Michel Warschawski






IL MASSACRO DI GAZA: 
HAMAS NE ESCE VINCENTE, MA A CHE PREZZO!
di Michel Warschawski



Mentre scrivo, la tregua e i colloqui per il cessate il fuoco sono stati interrotti, ancora una volta in seguito a una deliberata provocazione israeliana (il tentato assassinio del comandante militare Mohammad Deif, che è fallito, ma con varie vittime civili, tra cui sua moglie e la sua bambina). È peraltro verosimile che quando l’articolo uscirà, sarà stato firmato un accordo: tutti sono infatti interessati a porre fine a questo scontro, ma non prima di aver sparato l’ultima salve al solo scopo di poter proclamare “abbiamo vinto!”. Su questo – chi ha vinto? – tornerò più avanti nella mia analisi.

Un’osservazione semantica: i mezzi di informazione di massa e le diverse opinioni pubbliche parlano di “guerra di Gaza”. Questa definizione è parte del gigantesco apparato di propaganda montato da Israele e ripreso dalla cosiddetta “comunità internazionale” e da gran parte dei media. Come parlare di guerra se da una parte c’è la quarta potenza militare del mondo e, dall’altra, una popolazione stretta da sette anni in un blocco totale e che per difendersi dispone soltanto di missili artigianali, che provocano danni umani e materiali irrilevanti?

Massacro a Gaza

Se prendiamo gli ultimi due mesi, il conteggio dei morti (odioso da fare e da dire, ma pur sempre da precisare) è: 3 civili israeliani da un lato, 1.800 civili palestinesi dall’altro. Non è una guerra ma un massacro: bombardare con l’aviazione, l’artiglieria e l’artiglieria navale 1,8 milioni di persone, ferme, su un territorio non più grande di un agglomerato urbano francese di medie dimensioni, significa per forza mirare sulla popolazione, un atto di terrorismo su vasta scala.

lunedì 20 ottobre 2014

RENZI CONTINUA A SBAGLIARE (E ANCHE I MERCATI LO SANNO) di Alfiero Grandi







RENZI CONTINUA A SBAGLIARE (E ANCHE I MERCATI LO SANNO)
di Alfiero Grandi




L’aspetto curioso ed inquietante della situazione è che, sia mettere in discussione seriamente la politica di austerità dell’Europa, che tuttora è dominante, sia limitare l’iniziativa per tentare di ottenere qualche miliardo di margine, sempre premettendo dichiarazioni impegnative sul rispetto del 3 % da parte dell’Italia, cambia poco agli occhi dei mercati e delle “signorie” che decidono quando è il momento del pollice verso e quindi puntano su un aumento dello spread.

La convinzione che bastasse attaccare l’articolo 18, aumentare la precarietà attraverso il tempo determinato, mettere nell’angolo i sindacati per tenere a bada i mercati finanziari e ammorbidire le risposte dei conservatori europei è semplicemente destituita di fondamento.

Del resto la Grecia ha provato a convincere i mercati che la cura da cavallo subita l’ha già messa nelle condizioni migliori per togliersi di dosso l’ipoteca della troika, ma si è trovata immediatamente sotto attacco, al punto da fare fibrillare anche altri paesi europei.

I mercati sanno benissimo che ciò che fa la differenza è la ripresa economica perchè solo così il debito pubblico può essere garantito, e ripagato, mentre purtroppo l’Italia è in recessione da anni e non si vede la famosa luce in fondo al tunnel di montiana memoria.

Anzi il nuovo Def e la legge di stabilità sanciscono con i numeri che il 2015 sarà un anno di non crescita, se va bene un modesto più 0,5%.

Le misure per rendere ancora più precario e flessibile il mercato del lavoro non solo non bastano mai – c’è sempre una precarietà in più da introdurre – ma semplicemente non creano un solo nuovo occupato perché, come ricordano tutti quelli che se ne intendono, le imprese assumono se hanno qualcosa da produrre in più, se hanno la percezione di una crescita e oggi purtroppo non l’hanno.

Il governo Renzi ha sbagliato obiettivo e percorso. Portare ai conservatori europei e ai mercati lo scalpo dell’articolo 18 non porterà particolari vantaggi alla ripresa dell’Italia, mentre ai lavoratori darà certamente meno diritti e probabilmente avrà semmai un effetto depressivo sui redditi da lavoro.
Confindustria non può che ringraziare per la cortesia.

NON CI PARLO CON I FASCISTI






NON CI PARLO CON I FASCISTI




Franco Turigliatto, ex senatore e ora dirigente di Sinistra Anticapitalista, è sotto processo perché, nella campagna elettorale del 2008, ha abbandonato lo studio di Porta a Porta per contestare la presenza di Roberto Fiore di Forza Nuova, partito che si richiama esplicitamente ai valori del Ventennio e che si inserisce nell'ondata reazionaria che investe l'Europa, dalla Francia alla Grecia, dall'Ungheria all'Ucraina.

Il leader della formazione di estrema destra non gradì le considerazioni politiche di Turigliatto e del suo partito e il loro richiamo alle norme della Costituzione che impediscono l'apologia del fascismo e la ricostituzione di partiti che si rifacciano a quelle pratiche politiche violente e xenofobe.

Sei anni dopo, con decreto penale richiesto dalla Procura di Roma, un Gip ha condannato la “diffamazione" di Turigliatto, senza nemmeno che Franco abbia saputo di essere stato denunciato, a una pena pecuniaria irricevibile sul piano politico.

Franco si è opposto alla condanna, così il 4 novembre, a Roma, inizierà finalmente il processo pubblico. Noi siamo solidali con Franco Turigliatto e con tutti coloro che, in Italia e in Europa, si battono contro l'aggressività delle formazioni di estrema destra.

L'antifascismo non si processa, è scritto nella Costituzione italiana!



Qui il video di Porta a Porta del 14 marzo 2008
https://www.youtube.com/watch?v=K6KuoCFroT4




MERCOLEDI 22 OTTOBRE ALLE ORE 21 A MILANO

Sala Livio Maitan - via Varchi 3
(atm 90/91/92/82 passante Bovisa)

SERATA DI SOLIDARIETA’ ANTIFASCISTA

Intervengono:

Saverio Ferrari dell’osservatorio sulle nuove destre

Aldo Giannuli docente università statale di Milano

Sarà presente

Franco Turigliatto Sinistra Anticapitalista




domenica 19 ottobre 2014

L'INEDITO POTERE PERSONALE di Alberto Burgio





L'INEDITO POTERE PERSONALE
di Alberto Burgio


Renzi . Senza opposizione, l’attivismo brutale del premier ha dissolto qualsiasi residuo di sinistra nel Pd



Imma­gino siano in tanti a chie­dersi che cosa spinga Renzi al bul­li­smo, visto che le pro­vo­ca­zioni e gli insulti non col­pi­scono tanto gli avver­sari quanto i suoi stessi com­pa­gni di par­tito. E visto che non può esserci dub­bio sul fatto che il con­tra­sto non è un inci­dente ma uno scopo per­se­guito con cura e previdenza.

Quando si trattò del Senato, Renzi avvertì che i dis­sen­zienti avreb­bero potuto spo­stare qual­che vir­gola, non certo «stra­vol­gere la riforma», inten­dendo per stra­vol­gi­mento qual­siasi modi­fica del testo. Nel con­flitto sul Jobs Act la for­mula si è pre­ci­sata: «incon­tro tutti ma nes­suno si sogni di cam­biare nulla». Pren­dere o lasciare. È pas­sata una set­ti­mana e siamo al match sulla finan­zia­ria, coi tagli alle casse regio­nali e altre por­che­rie come il rin­no­vato blocco dei con­tratti degli sta­tali, la decon­tri­bu­zione e gli sconti sull’Irap che fanno sognare il dot­tor Squinzi. In tutti i casi la rivolta della vec­chia guar­dia Pd era pro­ba­bil­mente auspi­cata, e ciò si spiega con la volontà di «asfal­tare» chi cri­tica ma non regge il con­flitto. Ma ora come inten­dere l’urto col super-renziano pre­si­dente del Pie­monte e della con­fe­renza delle Regioni? Che Chiam­pa­rino avrebbe rea­gito era scon­tato: allora per­ché non pre­ve­nire lo scon­tro e anzi cari­care i toni?

Gli sto­rici sve­le­ranno il mistero. Intanto, a caldo, sem­bra plau­si­bile una sola ipo­tesi. Che – incal­zato dalla tec­no­cra­zia euro­pea e ten­tato dall’opportunità di sfrut­tare il dif­fuso astio verso il ceto poli­tico – Renzi lavori per con­qui­stare un potere per­so­nale ine­dito nella sto­ria repub­bli­cana. Dopo aver vinto (gra­zie a Ber­sani) le pri­ma­rie, annun­ciò di voler essere l’«uomo solo al comando» del paese. È quello che sta cer­cando di fare, sin qui con buon suc­cesso. Nel governo non deve tener conto del parere di nes­suno, visto che lì nes­suno è in grado di con­ce­pire pareri, fatta ecce­zione forse per il rap­pre­sen­tante dell’Ocse, con cui difatti litiga ogni giorno.

Nel par­tito batte i pugni sul tavolo quando qual­cuno storce il naso. E ne trae grandi van­taggi, facendo sì che i cri­tici si mostrino pavidi e tre­me­bondi ed esi­ben­dosi al cospetto del popolo ammi­rante come un eroe senza mac­chia e senza paura. Come l’Uomo della Prov­vi­denza all’altezza dei tempi, che «tira dritto» per ribal­tare il mondo dalle fondamenta.

Natu­ral­mente quest’opera di autoe­sal­ta­zione implica la più sini­stra virtù del poli­tico: la capa­cità di men­tire. Che Renzi pos­siede in sommo grado ed eser­cita cini­ca­mente, com­plice la gran­cassa media­tica, pur di sedurre la pla­tea degli spet­ta­tori che prima o poi dovrà con­vo­care alle urne. Que­sta mega-riduzione di tasse a bene­fi­cio dei padroni è un esem­pio da manuale, visto che per milioni di ita­liani (com­presi tanti che l’hanno votato fidu­ciosi) si tra­durrà nel con­tra­rio o in nuove rovi­nose per­dite di ser­vizi essen­ziali, dalla sanità alla scuola, ai tra­sporti. Pro­prio come nell’Inghilterra del prov­vi­den­ziale Blair. Ma la que­stione della verità e della men­zo­gna non si pone. Poli­tica e morale hanno divor­ziato da tempo, ammesso che abbiano mai con­vo­lato. Quel che conta è il gra­di­mento dell’Europa e della grande finanza. Il potere, quindi il con­senso comun­que estorto, non certo la con­di­zione reale della gente, sem­pre più povera, insi­cura e depressa. L’importante è con­durre rapi­da­mente in porto la tra­sfor­ma­zione del paese in una libera società di mer­cato, dove tutto (e cia­scuno) è merce e il capi­tale regna senza l’intralcio dei diritti.
In que­sto qua­dro «rivo­lu­zio­na­rio» Renzi si muove come un pesce in acqua. E, con la sua aggres­si­vità e spre­giu­di­ca­tezza, è l’uomo giu­sto al posto giu­sto per quanti sognano una società paci­fi­cata nel segno della radi­cale subor­di­na­zione del lavoro. Ma se è così, prov­vi­den­ziale Renzi lo è anche per un’altra ragione, oppo­sta a que­sta. Pro­prio per la sua vio­lenza padro­nale è anche il messo di una Prov­vi­denza bene­vola, decisa a can­cel­lare final­mente l’anomalia ita­liana: l’assenza di una sini­stra mini­ma­mente in grado di con­tra­stare lo sfon­da­mento neo­li­be­ri­sta e di pro­teg­gere la con­tro­parte sociale del capi­tale pri­vato. Un’assenza – sia chiaro – che chiama in causa anche gravi respon­sa­bi­lità dei gruppi diri­genti sus­se­gui­tisi in que­sti decenni alla guida della sini­stra di alternativa.

L’estremismo ren­ziano ha una qual­che valenza sto­rica, è una discon­ti­nuità che aiuta a perio­diz­zare la poco esal­tante espe­rienza della «sini­stra mode­rata» ita­liana. Se fino al 2007 la nor­ma­liz­za­zione della sini­stra post-comunista aveva con­vis­suto con un sem­pre più tenue e con­trad­dit­to­rio sistema di rela­zioni con le lotte del lavoro, la nascita del Pd ha san­cito la sus­sun­zione della «sini­stra mode­rata» all’egemonia cen­tri­sta e la sua fun­zio­na­liz­za­zione al pro­getto oli­gar­chico matu­rato nel qua­dro della crisi. Nel 2011 il pro­ta­go­ni­smo di Napo­li­tano, regi­sta extra­par­la­men­tare delle lar­ghe intese, ha inau­gu­rato una nuova fase, nel segno di un sem­pre più risolto sgan­cia­mento dal campo delle classi subal­terne. Ora il bru­tale atti­vi­smo ren­ziano porta a ter­mine il pro­cesso, met­tendo all’ordine del giorno la dis­so­lu­zione di qual­siasi resi­duo di sini­stra nel Pd: la guerra con­tro il lavoro, l’urto fron­tale con il sin­da­cato, lo sman­tel­la­mento del sistema dei diritti sociali, lo svuo­ta­mento della Costi­tu­zione d’intesa col vec­chio padre-padrone della destra.

Non è pos­si­bile negare la cifra rea­zio­na­ria di tale pro­gramma, che lo stile popu­li­sta del prov­vi­den­ziale demiurgo raf­forza. Ma pro­prio que­sto evi­dente con­no­tato con­sente e impone di rico­no­scere senza indugi che la rina­scita della sini­stra ita­liana implica la sot­tra­zione di tutte le sue com­po­nenti all’egemonia dell’attuale gruppo diri­gente demo­cra­tico, l’esercizio di quella pra­tica dell’autonomia poli­tica che Gram­sci chiamò «spi­rito di scis­sione». Dopo­di­ché si trat­terà di con­tri­buire tutti a un’impresa ormai inde­ro­ga­bile – la costi­tu­zione di un nuovo sog­getto poli­tico della sini­stra ita­liana – met­tendo da parte patriot­ti­smi e set­ta­ri­smi e pra­ti­cando senza reti­cenza l’obiettivo prio­ri­ta­rio dell’unità.



18 ottobre 2014


da "Il Manifesto"


La vignetta è dell'Istituto Lupe



LA PALESTINA SI', IL DONBASS PROPRIO NON CI PIACE... di Fabrizio Marchi





LA PALESTINA SI', IL DONBASS PROPRIO NON CI PIACE...
di Fabrizio Marchi




La cosiddetta crisi russo-ucraina o, per meglio dire, il processo di destabilizzazione di quell’area in corso ormai da tempo in seguito al colpo di stato avvenuto in Ucraina che ha portato al potere l’oligarchia locale filo USA e filo UE che non hanno esitato, per lo scopo, a servirsi delle bande paramilitari nazifasciste di Svoboda e Pravj Sector, ha fatto emergere delle contraddizioni macroscopiche in una buona parte della sinistra cosiddetta “radicale” e anche di quella cosiddetta “antagonista”.

Infatti, una parte consistente e forse addirittura maggioritaria di queste aree politiche (ormai più culturali che politiche…) sostiene che non bisogna prendere posizione, che non bisogna schierarsi perché saremmo di fronte ad uno scontro inter-imperialistico fra gli USA da una parte e la Russia dall’altra.

C’è del vero anche in questo, sia chiaro. Del resto la Russia di Putin non è certo un modello di socialismo e di democrazia, come ho già avuto modo di spiegare in questo mio articolo pubblicato alcuni mesi orsono su questo stesso giornale: http://www.linterferenza.info/esteri/un-primissimo-sguardo-sulla-crisi-russo-ucraina/

E’ evidente che la Russia sta cercando di difendere la sua posizione di potenza egemone in quella che è storicamente la sua area di influenza, o meglio, ciò che di quella rimane dal momento che le tre repubbliche baltiche sono già state sottratte al suo controllo da un pezzo, ridimensionandola fortemente.

sabato 18 ottobre 2014

IL PUZZLE DELLA SINISTRA ITALIANA di Franco Turigliatto





IL PUZZLE DELLA SINISTRA ITALIANA
di Franco Turigliatto


L’autunno che si apre, segnato dalla nuova offensiva padronale del governo Renzi contro il mondo del lavoro, ma anche da alcuni segnali positivi di ripresa del conflitto dei lavoratori e di nuove possibilità di lotta, è il campo su cui si misurano le forze organizzate alla sinistra del PD in termini di proposte politiche e di processi ricompositivi unitari.

La dialettica potrebbe essere così riassunta: come contribuire con l’azione unitaria allo sviluppo delle mobilitazioni dei lavoratori, costruendo nello stesso tempo un processo di convergenza politica per rispondere alla mancanza di una forza credibile di alternativa al sistema capitalista e alla gestione della crisi decisa dai governi europei?

Il fardello del passato

Su questa dialettica pesa come un macigno, in Italia, il convitato di pietra rappresentato dal PD, oggi il principale promotore per conto della classe dominante delle politiche di austerità; gran parte della sinistra non è infatti ancora riuscita a farsi una ragione della natura borghese di questo partito sia in versione Bersani che in versione Renzi e a rompere il vecchio cordone ombelicale.

Eppure la sua frantumazione attuale, la sua scarsa credibilità e il sempre minore radicamento nelle classi lavoratrici è il frutto non solo delle sconfitte sociali, politiche ed ideologiche del mondo del lavoro, e dell’incapacità di collegarsi, all’inizio del secolo, con le nuove generazioni del movimento antiglobalizzazione, ma anche della linea distruttiva operata da Rifondazione con la scelta della collaborazione di classe con un governo borghese, come quello del Prodi 2.

In quello snodo politico cruciale la corrente interna al PRC, Sinistra Critica combattè con forza, e determinazione, non trovando però rispondenza nel partito, una deriva di cui comprendeva tutte le ricadute negative immediate e i grandi pericoli che rappresentava per il futuro.

Se si pone attenzione a ciò dicono e fanno i diversi spezzoni prodotti dalla crisi della vecchia Rifondazione, si ha la netta percezione che nessuno abbia fatto un bilancio serio di quanto avvenuto, della natura strategica e non politica degli errori compiuti in quegli anni dai gruppi dirigenti con effetti distruttivi sul partito e sulle prospettive del movimento dei lavoratori.

In questi anni abbiamo assistito a diversi progetti unitari, qualcuno ideologico, qualcuno passatista (nostalgia dei vecchi tempi del PCI), qualcuno opportunista o elettoralista, spesso con una combinazione di questi diversi aspetti, quasi tutti però rimasti allo stato di enunciazione.

Mi ha sempre colpito che nessuno, come primo elemento, abbia messo l’accento sulla necessità di costruire un fronte comune di resistenza sui contenuti, sulle lotte sociali da sviluppare, sugli obbiettivi di lotta da sostenere insieme ai lavoratori, come precondizione per affrontare la ricomposizione politica, quasi che si possa passare alla matematica superiore, facendo a meno di una buona pratica dell’aritmetica.

Occorre invece misurarsi in primo luogo su questo terreno unitario per favorire le lotte dell’autunno: insieme ai cancelli, nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro per solidarizzare e aiutare le lavoratrici e i lavoratori a reggere l’urto del padronato.

venerdì 17 ottobre 2014

IL BALLETTO DELLE NAZIONI di Miguel Martinez






IL BALLETTO DELLE NAZIONI
di Miguel Martinez




Violet Paget, che scriveva sotto lo pseudonimo di Vernon Lee, visse a cavallo dell’Otto e Novecento, in gran parte a Firenze. Una scrittrice inglese che non è nata né quasi mai vissuta in un paese anglofono, e quindi con tutta la ricchezza dell’esule.

Fino a pochi anni fa, ne ignoravo l’esistenza; e oggi mi dispiace che solo i tempi sfalsati delle nostre esistenze ci impediscano di incontrarci per le strade del quartiere. Tante volte, leggendo le cose che scriveva, mi sembra di vedere insieme il mondo, quasi dagli stessi occhi.

Violet Paget è stata scrittrice profonda e geniale, con una capacità molto particolare di cogliere le sfumature delle cose; è stata amica dello scultore Emilio Santarelli che mise in piedi il palazzo e il giardino che sono diventati il centro delle iniziative dell’Oltrarno (e da lui lei raccolse i ricordi della Contessa di Albany, moglie del Bonny Prince Charles e compagna di Alfieri); quasi da sola, Violet Paget ha salvato quel che resta del centro storico di Firenze dalla potente macchina della speculazione edilizia a fine Ottocento.

In piena guerra, nel 1915, lei scrisse un breve opuscolo intitolato The Ballet of the Nations, che le costò quasi tutte le sue amicizie.

Di pacifisti con il senno di poi è pieno il mondo, ma solo quando le passioni si sono rivelate in tutta la loro assurdità. Violet Paget invece fu uno dei rari pacifisti con il senno sveglio proprio nel momento peggiore.

Questa piccola opera è molto di più di una critica a quella guerra. E’ un compendio di verità al di là del tempo.

Se riuscissimo a farla davvero nostra, assorbendo il senso recondito di tutti i personaggi elencati, saremmo immuni per sempre dalla Danza. E ovviamente, diventandolo, ci bruceremmo anche noi le nostre amicizie.

Violet Paget dedicò i cinque successivi anni a trasformare The Ballet of the Nations in un’opera teatrale, Satan the Waster, che non fu mai recitata. Un giorno, magari…

Intanto, in un saggio scritto nello stesso periodo, parlò della “cortina di ferro” che a Natale separava madri inglesi e tedesche che si sarebbero recate in chiesa ad ascoltare Bach. Pare che abbia dato così ai politici inglesi l’immagine della Iron Curtain, che Churchill anni dopo avrebbe rilanciato per ben altri fini: c’è sempre qualcuno pronto a rubarti le idee senza volerle capire.

Su Archive.org, potete leggere il testo originale; qui ho ricopiato per intero la versione italiana a cura di Bruna Bianchi che si trova sul sito dell’Università di Venezia.

Una piccola riflessione… se leggete gli scritti di Oriana Fallaci, ci sentirete tutte le passioni lucidamente descritte da Vernon Lee.

Non sorprenderà quindi sapere che la città che Violet Paget salvò dalla distruzione non le ha dedicato una via, mentre ne dedicherà una a Oriana Fallaci.



30 settembre 2014


dal sito Kelebek Blog




giovedì 16 ottobre 2014

BARBARIE GLOBALIZZATA di Tomasz Konicz






BARBARIE GLOBALIZZATA
di Tomasz Konicz



Un tentativo di comprendere il fenomeno dello “Stato Islamico”


Di nuovo, il presidente degli Stati Uniti mobilita la coalizione di tutti quelli disposti ad entrare in campo contro “il male” (Spiegel Online). Questa volta è il gruppo terrorista “Stato Islamico” (Isis) che deve essere sconfitto in una campagna di tre anni, in cui nella prima fase la Forza Aerea degli Usa estenderà gli attacchi aerei alla Siria. Allo stesso tempo, la Casa Bianca ha chiesto al Congresso la somma di 500 milioni di dollari allo scopo di “addestrare e armare i ribelli siriani moderati”, come ha informato la Reuters.

Questo approccio fa ricordare una fase precedente della guerra civile siriana, cioè quando i servizi segreti occidentali, in intima comunione con i dispotismi fondamentalisti del golfo, come l’Arabia Saudita, hanno appoggiato l’opposizione siriana, appoggio dal quale è nato lo Stato Islamico, oltre a una varietà di altre milizie islamiste. E naturalmente dentro il movimento di opposizione siriana dominano inevitabilmente fazioni fondamentaliste che sono in concorrenza con lo Stato Islamico e lottano contro di esso.

Uno dei principali gruppi ribelli siriani, per esempio, è l’alleanza fondamentalista Fronte Islamico, il cui leader Hassan Abboud è morto recentemente in un attentato presumibilmente realizzato dall’Isis. Il Fronte Islamico rappresenta il maggior contingente tra i ribelli siriani – e ha contatti stretti con il gruppo jihadista al-Nusra.

E’ questa stessa filiale siriana di Al-Qaeda, lo Jabhat al-Nusra, che sta cercando, dopo una pesante sconfitta contro l’Isis, di prendere le distanze dallo Stato Islamico attraverso la liberazione di ostaggi americani. Di conseguenza, questi ribelli “moderati” del futuro completeranno la loro formazione militare nel territorio della democrazia di riferimento che è l’Arabia Saudita.

mercoledì 15 ottobre 2014

DIRITTI E DOVERI di Antonio Moscato






DIRITTI E DOVERI 
di Antonio Moscato


Avevo già denunciato l’approdo squisitamente reazionario del prof. Biagio De Giovanni, del PD, che trova eccessivi i diritti dei lavoratori, che secondo lui trascurano i loro doveri. Lo diceva a proposito del caso del Teatro dell’Opera, e indubbiamente il suo suggerimento è stato accolto: tutti licenziati, tranne gli amministratori responsabili degli enormi sprechi pluridecennali. (Il Teatro dell’Opera di Roma ha fatto scuola). Quello che mi sorprende, in questo caso, o in quello della Thissen Krupp, o in decine di altre proteste di fronte a licenziamenti massicci, è che la maggior parte dei sindacalisti di tutte e tre le confederazioni e anche la quasi totalità dei lavoratori pensano di farsi scudo dei diritti sanciti dalla costituzione.

Succede d’altra parte anche per le sempre più rare proteste contro gli interventi imperialisti, le basi e le spese militari senza limiti: si fa appello a un art. 11 della costituzione che sancisce in astratto il “ripudio della guerra” ma non ha mai avuto la benché minima applicazione. Ogni richiamo ad esso ha sempre dato luogo a giustificazioni capziose a partire dalla seconda parte dell’articolo: quello che fa riferimento alle “limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” che dovrebbe essere assicurato da inesistenti “organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. E non si tratta di una prevaricazione degli “indegni eredi” dei mitici padri costituenti: tutti gli articoli più significativi della costituzione sono stati scritti in forma ambigua, tale da renderne impossibile la concretizzazione. La costituzione era una compensazione verbale per la rinuncia alla rivoluzione…

martedì 14 ottobre 2014

LA CRISI, LE CRISI, LA GUERRA






LA CRISI, LE CRISI, LA GUERRA


Dal 2006 ad oggi l’economia capitalista è entrata in crisi. Iniziata con la crisi dei mutui subprime e lo sgonfiarsi della bolla immobiliare, ha fatto seguito la successiva crisi finanziaria (agosto 2007) cui sono seguite una recessione, iniziata nel 2008, e la grave crisi industriale dell’autunno dello stesso anno di proporzioni più ampie, per molti, della Grande Depressione del 1929.
Nel 2009 la crisi dell’economia capitalista si è generalizzata, con pesanti aspetti recessivi e vertiginosi crolli dei Pil in numerosi paesi del mondo e in special modo nel cosiddetto “mondo occidentale”. Terminata la recessione nel terzo trimestre 2009, tra la fine dello stesso anno e il 2010 si è da più parti decantata una fase di ripresa risultata in realtà effimera.

Tra il 2010 e l’anno successivo si è invece verificato un allargamento della crisi ai debiti sovrani e e delle finanze pubbliche di molti paesi dell’eurozona, che in alcuni casi hanno evitato l’insolvenza (di Portogallo, Irlanda, Grecia), grazie all’erogazione di ingenti prestiti (da parte di FMI e UE), denominati “piani di salvataggio”, volti a scongiurare possibili default, a prezzo però di politiche di bilancio fortemente restrittive sui conti pubblici, avviando una fase di austerità e frenando consumi e produzione, alimentando così una vertiginosa spirale recessiva in diversi paesi.

Tra i fattori causa della crisi economica globale, figurano gli alti prezzi delle materie prime, come il petrolio (shock energetico effetto del disastro di Fukushima), l’elevata inflazione e la minaccia di una recessione su scala globale e, infine, una crisi creditizia (seguita a quella bancaria) con conseguente crollo di fiducia dei mercati borsistici.

Il mondo sta attraversando una sovrapposizione di crisi cicliche. Una tra queste è quella tecnologica: il Capitale ha bisogno di ristrutturarsi per affrontare il passaggio alle nuove tecnologie.

La guerra fredda e la corsa allo spazio e agli armamenti, nei decenni scorsi, hanno determinato lo l’affermarsi di complessi apparati d’informazione e comunicazione, quale base di uno sviluppo tecnologico-industriale che ha permesso la crescita dell’economia negli ultimi 30 anni.

Oggi siamo in una nuova fase di passaggio dello sviluppo capitalistico, cui i principali vettori di crescita sono le innovazioni informatiche e comunicative, le biotecnologie, le nanotecnologie e le scienze cognitive. A questa crisi economica si aggiunge la crisi ambientale, quella alimentare e dello stato-nazione.

Con la fine del mondo diviso in blocchi e la globalizzazione selvaggia, i conflitti nazionali, etnici e religiosi sono esplosi aumentando le spinte alla frammentazione. Il modello dello stato-nazione ottocentesco è in trasformazione, poiché inadeguato, in molti casi, a reggere l’urto della competizione globale. A fianco di tanti nuovi piccoli Stati, vi sono Stati di dimensione continentale, per estensione geografica e/o popolazione, che emergono prepotentemente insieme a altri attori super- o inter-statuali (Ue, Nato, Ocse, Guam) e sub-statuali (lobby, ong, multinazionali, mafie, gruppi terroristi, etc.); in questo contesto gli unici Stati che conservano parte della loro forza e sovranità solo quelli legati ai vecchi e nuovi poli imperialistici.

Da una parte il cosiddetto “impero americano” cerca di rimanere egemone, mentre in Asia crescono “nuove” potenze che si contendono risorse e ricchezze con Usa e Ue. Fagocitare un paese come l’Ucraina è fondamentale per allargare il proprio mercato a scapito di altri e garantirsi una massa di lavoratori a basso costo. Ma l’era della tristemente famosa pax americana è finita da tempo, il Medio Oriente è lì a dimostrarci che regimi asserviti non garantiscono più alcuna stabilità. Mentre lo scontro inter-imperialistico per l’accaparramento delle risorse e delle proprie zone d’influenza si fa sempre più feroce. La terza guerra mondiale è una guerra civile globale dove gli attori in campo possono essere al contempo alleati tattici ed avversari strategici, come la questione Siria, Iran e Is sta confermando tra migliaia di morti.

In questo contesto, la congiuntura economica permette ai padroni di utilizzare la crisi contro i lavoratori. Ristrutturazioni, dismissioni, delocalizzazioni, privatizzazione di beni e servizi pubblici, precarietà, distruzione del welfare, licenziamenti, cassa integrazione, aumento dello sfruttamento, servono ai padroni per rovesciare contro i lavoratori tutto il peso della loro crisi, per ridurli a chiedere lavoro a qualsiasi condizione, a pregare di essere sfruttati. La crisi viene usata per ristrutturare e far arretrare il movimento operaio dalle sue conquiste storiche, per piegarlo ad accettare lo sfruttamento, i rapporti gerarchici e in generale il dominio capitalistico.

I lavoratori necessitano dunque di molti strumenti, che gli restituiscano la forza e la capacità di resistere e poter contrattaccare. Antirazzismo, internazionalismo, federalismo libertario, autogestione sono solo alcune delle parole d’ordine necessarie per invertire la tendenza alla subordinazione al pensiero unico e allo sfruttamento globale.



11 ottobre 2014

Redazione di «Lotta di Classe» - Editoriale Autunno/Inverno 2014 

dal sito Lotta di classe   Unione Sindacale Italiana


La vignetta è del Maestro Mauro Biani





lunedì 13 ottobre 2014

PERCHE' L'ITALIA NON CE LA FARA' di Roberto Orsi






PERCHE' L'ITALIA NON CE LA FARA'
di Roberto Orsi



Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del Telegraph) e Wolfgang Münchau (Financial Times) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell'Italia e l'instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei policy maker nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l'Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt'altro che favorevole sulle possibilità di "guarigione" del nostro Paese.

Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l'economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16?

Bootle osserva che "l'Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano 'trappola del debito', quando cioè l'indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale. Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default.

Non disponendo di una valuta nazionale, l'Italia non può controllare la prima opzione: quindi, se non ci saranno cambiamenti realmente significativi in tempi brevi, il default sovrano diverrà lo scenario più probabile". Sul piano tecnico è obiettivamente difficile stabilire, per qualsiasi paese, una soglia massima oltre la quale il default diventa "matematicamente inevitabile". Basti pensare al Giappone che, nonostante un rapporto debito/Pil al 230%, è ancora considerato un creditore solvibile. Nel caso dell'Italia, la mancanza di una moneta nazionale complica però le cose. Evans ritiene comunque che "il debito pubblico italiano raggiungerà un livello pericoloso il prossimo anno". Pericoloso al punto che "potrebbe essere superato il punto di non ritorno".

L'articolo di Münchau è il più esplicito e allarmistico: "La posizione economica dell'Italia è insostenibile e sfocerà in un default a meno che non vi sia un'immediata e duratura inversione di tendenza sul piano economico". E un default, naturalmente, "comprometterebbe il futuro del paese nell'Eurozona e l'esistenza stessa della moneta unica".

domenica 12 ottobre 2014

UNA MOBILITAZIONE CHE CRESCE di Andrea Martini






UNA MOBILITAZIONE CHE CRESCE
di Andrea Martini



Nel silenzio dei media, lasciate trapelare con il contagocce anche dal sito della Fiom nazionale, ma evidentemente non ignorate né dal governo né dagli apparati sindacali, un certo numero di mobilitazioni operaie cominciano a prodursi.

Già qualche settimana fa, il 18 settembre per l’esattezza, all’indomani del primo annuncio del Jobs Act la RSU della fabbrica di trattori Same di Bergamo indice una mobilitazione immediata invitando i lavoratori a scioperare all’ultima ora di ogni turno. Contemporaneamente invita le altre RSU a assumere iniziative analoghe. La stessa RSU organizza per il 13 ottobre, quando Renzi parteciperà all’interno della azienda Persico di Nembro all’assemblea provinciale della Confindustria, un sit-in di protesta. Già preannunciata la partecipazione, con sciopero, dei lavoratori Tenaris Dalmine, Brembo, ABB, Sematic, Itema, Lovato Electric, Eutron, Sint, Brembana&Rolle, Vin Service, Faac.

Nei giorni scorsi, vari stabilimenti della Marcegaglia, l’azienda della ex presidente di Confindustria, peraltro impegnati in una complessa vertenza per la salvaguardia dei posti di lavoro, entrano in sciopero anche contro i progetti di legge governativi in materia di lavoro.

Il 23 settembre la RSU Fiom della Maserati proclama una fermata dalla 8.00 alle 9.00 contro i progetti di cancellazione dell’art. 18, di demansionamento, di reintroduzione dei controlli a distanza.

La RSU della Necta (New &Global Vending) di Valbrembo (BG) proclama per il 1° ottobre uno sciopero delle ultime 4 ore di ogni turno contro il Jobs Act.

La RSU Fiom della Piaggio di Pontedera indice uno sciopero per il 3 ottobre a metà turno, con corteo interno. E, assieme alla RSU della vicina Continental, chiamano tutti i lavoratori della zona ad un’assemblea autorganizzata per coordinare le azioni di lotta.

La RSU della San Polo Lamiere di Parma organizza una fermata di un’ora e mezzo alla fine di ogni turno il 7 di ottobre. Il suo esempio è seguito da numerose altre fabbriche della zona, tra cui la Tas (ex Data System), la Crown imballaggi, la Cometal.

L’8 di ottobre (il giorno della imposizione della fiducia sulla legge delega sul lavoro da parte di Renzi, ma anche il successivo, dopo l’incontro tra renzi e i leader sindacali confederali a Palazzo Chigi) la mobilitazione si intensifica; scendono in sciopero numerose fabbriche modenesi, anticipando lo sciopero generale della Cgil emiliano-romagnola indetto per il 16 ottobre. Ma già nei giorni precedenti alcune fabbriche di Sassuolo (la Motovario e la Bonfiglioli), la Wam erano in agitazione. A piombino i dipendenti della Lucchini sono scesi in sciopero e hanno manifestato, altre aziende a Pistoia. In lotta anche i lavoratori umbri di Tk-Ast, Perugina, Umbria Mobilità, Novamont, Regione Umbria, Tedesco, Alcantara.

La RSU della Fincantieri di Trieste sciopera lo stesso 8 ottobre, dalle 15.45 alle 16.45.

La stessa iniziativa della Fiom e di altri movimenti sociali di contestazione dell’ignobile vertice comunitario sul lavoro organizzato da Renzi a Milano mercoledì 8 ottobre è andata ben oltre la dimostrazione simbolica di protesta, soprattutto grazie a una diffusa adesione dei lavoratori allo sciopero.

E’ solo un elenco parziale delle numerose iniziative che si stanno producendo in questi giorni, certo in parte stimolate dalla decisione della Fiom di consegnare alle RSU metalmeccaniche e ai territori un pacchetto di 8 ore di sciopero. E forse anche dal comunicato della segreteria Cgil che sollecita ordini del giorno, fermate e scioperi con assemblee dalle aziende.

L’irrigidimento di Susanna Camusso, naturalmente, è dovuto alla volontà di difendere l’apparato e il ruolo tardo-concertativo dei sindacati. Ma ha anche l’effetto di far sentire i lavoratori meno soli.

L’iniziativa del governo di rottamare parti fondamentali dello Statuto dei diritti dei lavoratori rischia di trasformarsi in un boomerang. Cominciano ad apparire i sintomi di una nuova sensibilità alla difesa dei diritti.

Se la lotta in azienda riuscirà a ripartire, pur se ancora in maniera discontinua e episodica, se gli scioperi e le fermate semispontanee si diffonderanno, questo potrebbe costituire un potente catalizzatore anche per le mobilitazioni in corso su centinaia di vertenze, contro la chiusura di fabbriche, contro i licenziamenti, contro i processi di privatizzazione, per il disagio giovanile dovuto alla schiacciante mancanza di prospettive unita alla situazione fatiscente del sistema scolastico e universitario, in procinto di essere drasticamente peggiorato dai progetti renziani sull’istruzione.

Peraltro è significativo che, in queste stesse settimane, Renzi sia stato contestato in numerose occasioni di visite in giro per il paese, da Taranto a Ferrara, a Treviso. E si preannuncia un’analoga contestazione per il 10 ottobre a Bologna.

Comunque, i sintomi di ripresa del conflitto che segnaliamo caricano di ancor maggiore valenza la manifestazione del 25 ottobre, che potrebbe trasformarsi in qualche cosa di diverso da quanto desiderato dall’apparato Cgil, il quale l’aveva convocata con il solito spirito testimoniale e impotente che ha caratterizzato tutte le scadenze confederali degli ultimi 3 anni.

Sarà una manifestazione nella quale la spinta per richiesta di uno sciopero generale vero non sarà circoscritta a qualche settore radicale, ma potrebbe assumere un carattere di massa, se non maggioritario.

A meno che la Cgil non decida, come è possibile, conoscendo le reazioni confederali, di anticipare i tempi della proclamazione di uno sciopero nelle riunioni dei prossimi giorni.

In un contesto come questo, anche quei settori di movimento sociale e politico che hanno proclamato lo “sciopero metropolitano” del 14 novembre dovranno seguire con attenzione questi avvenimenti, e tentare di costruire il massimo di convergenza con questa spinta dal basso.

Un atteggiamento simile sarebbe auspicabile anche per i sindacati di base, per evitare che le loro iniziative di lotta, invece di portare in ambito più vasto le loro piattaforme più radicali, non finiscano per isolarsi da un movimento che potrebbe crescere.


11 Ottobre 2014


dal sito Sinistra Anticapitalista


La vignetta è del Maestro Mauro Biani




venerdì 10 ottobre 2014

ARTICOLO 18: LA DELEGA IN BIANCO E' INCOSTITUZIONALE di Piergiovanni Alleva






ARTICOLO 18: LA DELEGA IN BIANCO E' INCOSTITUZIONALE
di Piergiovanni Alleva



Il governo pone all’approvazione del Senato, ricat­tato dal voto di fidu­cia, un dise­gno di legge delega in mate­ria di lavoro ulte­rior­mente peg­gio­rato rispetto alla pro­po­sta ori­gi­na­ria. È un testo squi­li­brato, ipo­crita e inco­sti­tu­zio­nale per­ché con­tiene una disci­plina inu­til­mente det­ta­gliata di argo­menti minori, come per­messi paren­tali e fun­zio­na­mento dei Cen­tri per l’impiego, ma lascia totale mano libera all’esecutivo sui temi essen­ziali del pre­ca­riato, delle garan­zie nel rap­porto di lavoro e degli ammor­tiz­za­tori sociali.

Infatti nes­sun con­tratto pre­ca­rio viene abo­lito e sul tema fon­da­men­tale dell’articolo 18 per il momento si tace, ma poi ci si riserva di inter­ve­nire diret­ta­mente, ovvia­mente in senso puni­tivo, nei decreti dele­gati, ossia al di fuori di qual­siasi con­trollo e voto del par­la­mento. Allo stesso modo il governo si riserva di rego­lare a suo arbi­trio, nei decreti dele­gati, l’indennità di disoc­cu­pa­zione e ciò che resta della cassa integrazione.

Que­sto modo di pro­ce­dere è inco­sti­tu­zio­nale per­ché l’articolo 76 della Costi­tu­zione sta­bi­li­sce invece, a garan­zia della cen­tra­lità del par­la­mento, che la legge delega debba fis­sare essa stessa, con riguardo all’emanazione dei suc­ces­sivi decreti dele­gati, i cri­teri diret­tivi, che non pos­sono in nes­sun modo essere sur­ro­gati da ordini del giorno o da prese di posi­zione in sede poli­tica. Ove il capo dello Stato pro­mul­gasse quindi que­sta legge delega voluta dal governo, vio­le­rebbe lui stesso la Costituzione.

giovedì 9 ottobre 2014

EBOLA E ALTRI VIRUS di Antonio Moscato





EBOLA E ALTRI VIRUS
di Antonio Moscato



L’allarme suscitato dalla diffusione del virus Ebola ha solo pochi punti di contatto con quello per l’influenza aviaria del 2006, che comportò nel solo 2009 una spesa inutile di oltre due miliardi e mezzo di euro per l’acquisto da parte di vari governi del Tamiflu, un farmaco inutile spacciato per miracoloso (“un finto antidoto per una finta pandemia”).

Questa volta il pericolo c’è davvero, ed è molto difficile che si riesca a bloccare la diffusione al di fuori dell’area in cui si è manifestata l’epidemia. Le ragioni sono molteplici: la ricerca di farmaci e antidoti non è stata praticamente avviata dalle grandi case farmaceutiche o dall’OMS finché le prime manifestazioni del male erano circoscritte a poveri villaggi isolati nelle foreste equatoriali. Le morti in quelle aree dell’Africa d’altra parte spesso non venivano neppure registrate, o venivano confuse con quelle abituali per denutrizione, scarsa resistenza a malattie altrove curabili. In ogni caso non facevano notizia e non c’era preoccupazione per possibili contagi fuori da quel continente.

La nuova esplosione (dopo la prima del 1976 registrata nello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo) ha investito medi e grandi agglomerati urbani di Guinea, Liberia, Sierra Leone, ed ha fatto capolino anche in Nigeria e Senegal. E non poteva non sfiorare Stati Uniti ed Europa (anche se per ora solo la Spagna) che hanno frequenti collegamenti aerei con i paesi africani colpiti: affaristi, industriali, missionari, membri di ONG più o meno umanitarie, militari. Ma su questo ritornerò. E non possono facilmente interromperli, perché dall’Africa arrivano minerali preziosi e materie prime di ogni genere. Ma utilizzeranno probabilmente l’epidemia per porre nuove barriere alla libera circolazione degli esseri umani.

I primi casi provenienti dalla zona di massima diffusione del male scoperti in Europa o negli Stati Uniti sono stati identificati con un certo ritardo, e hanno potuto trasmettere il virus a familiari o al personale sanitario che aveva fornito le prime cure senza essere in grado di evitare il contagio. Questo è ovviamente in gran parte evitabile in futuro, a mano a mano che si diffonde la consapevolezza del pericolo e la conoscenza dei sintomi e delle misure necessarie. Ma non del tutto, soprattutto se l’epidemia si diffonde anche soltanto ai ritmi attuali (che secondo un organo statunitense porterebbero già agli inizi del 2015 a un milione e mezzo di persone colpite). Ed è difficile intervenire in loco, dove da decenni manca tutto: non solo gli “scafandri” gialli esibiti dalle riprese televisive, ma perfino i guanti usa e getta, o più semplicemente l’acqua corrente non infetta.

Intanto l’allarme per l’epidemia è stato usato per inviare altri 3.000 marines in Liberia, che non serviranno a nulla ai fini sanitari, e comunque non correranno nessun rischio, isolati come saranno dalla popolazione locale e alimentati con prodotti e acqua rigorosamente provenienti dalla madrepatria. Ma serviranno se sarà necessario intervenire, in Liberia o in altri paesi limitrofi, per “tutelare l’ordine pubblico”. Bell’ordine!

Su questo argomento segnalo due belle pagine centrali del Manifesto di oggi, con un lungo articolo informativo di Nicoletta Dentice e un intervento di Raffaele K. Salinari, oltre a vari articoli, tra cui uno di Geraldina Colotti, che sottolinea giustamente l’impegno sanitario di Cuba, che ha mandato 167 tra medici e infermieri specializzati particolarmente preparati per affrontare il virus, che si aggiungono ai 4.000 già presenti in diversi paesi dell’Africa (mentre altri 15.000 giovani del settore sanitario si sono offerti volontari). Un aiuto dal senso diametralmente e opposto alla presenza militare statunitense (e francese in altri paesi africani).

Ma anche questo aiuto ben mirato è comunque soltanto una goccia in un mare di povertà e desolazione dovuto alla distruzione del sistema sanitario che era stato sviluppato in gran parte dei paesi negli anni immediatamente successivi alla decolonizzazione e che è stato poi distrutto in base ai dettami di FMI e BM.

I paesi imperialisti occidentali non possono rinunciare allo sfruttamento delle risorse dell’Africa, usandola per giunta come discarica a basso costo: tanto più ora che devono fare i conti con la concorrenza della Cina. E sarà difficile fermarli per invertire il corso che ha portato allo sfacelo attuale. La grande ondata della decolonizzazione è stata dispersa e sconfitta non solo per gli interventi diretti o indiretti dei paesi imperialisti (dal Congo alla Somalia, dall’Angola alla Libia) ma anche per l’appoggio dato dai paesi “socialisti” a regimi più che discutibili. Ora pagheremo tutti questo regresso di una parte importante del mondo a condizioni medievali, con lazzaretti difesi a mano armata. Ma senza che questo riesca a bloccare al loro interno l’epidemia.

C’è qualche analogia tra questa tragedia e quella della diffusione del cosiddetto “Stato islamico” che sta reclutando dal Marocco al Pakistan, alle disperate periferie di Londra, Parigi e Milano. Frutto di una politica dissennata che viene da lontano (la creazione di Stati artificiali, la negazione del diritto di interi popoli ad uno Stato) e che ha bruciato e sconfitto tutti i movimenti di liberazione, a partire da quello palestinese, che era stato per anni un punto di riferimento per molti: indisturbata Israele ha sputato sulla moderazione di Arafat, ha umiliato i suoi penosi continuatori, ha tentato con successo di schiacciare Gaza in uno scontro paurosamente asimmetrico, che Hamas ha creduto di poter affrontare sul piano puramente militare, pensando di vincere sopravvivendo in qualche modo e a qualunque costo. Intanto gli alleati più o meno aperti di Stati Uniti e Israele giocavano col fuoco finanziando integralisti e mercenari di ogni genere, e schiacciavano il movimento democratico nel Bahrein, in Egitto e in molti altri paesi. Intanto lo Stato di Israele e gli USA davano l’esempio degli assassinii mirati, e l’Arabia Saudita delle decapitazioni in piazza…

Bruciata ogni speranza, unica alternativa ai movimenti sconfitti e agli oppressori appariva l’efficientissimo esercito dalle bandiere nere che poteva reclutare facilmente disperati in Iraq, in Siria, in Cecenia e in tutto il mondo islamico, mentre svolgeva contemporaneamente qualche basso servizio ben retribuito alla Turchia, ossessionata dalla tenacia della resistenza secolare dei curdi.

È proprio vero: bruciata ogni prospettiva di rivoluzione, resta solo la barbarie. E, come di fronte a Ebola, i confini non reggeranno: ce la troveremo presto in casa…


8 Ottobre 2014


dal sito Movimento Operaio




mercoledì 8 ottobre 2014

IL TEATRO DELL'OPERA DI ROMA HA FATTO SCUOLA di Antonio Moscato





IL TEATRO DELL'OPERA DI ROMA HA FATTO SCUOLA
di Antonio Moscato


Il caso del licenziamento di orchestrali e coristi al Teatro dell’Opera di Roma non era un episodio casuale. Lo avevo capito subito dalla sistematicità con cui molti quotidiani si accanivano nella denuncia degli “inammissibili privilegi” di quei musicisti, riempiendo pagine e pagine di derisioni e falsità.

Significativo lo zelo di alcuni giornalisti sedicenti “di sinistra” come il viscido Massimo Gramellini, che sulla Stampa ha paragonato l’Opera all’Alitalia (dando nei due casi la colpa del dissesto a chi ci lavora e non a chi la dirige). Naturalmente per lui chi ci lavora “difende privilegi di casta”, pur avendo una “produttività da banda di paese”.

A Gramellini sembrava scandaloso che i lavoratori rifiutassero un taglio di 30 euro alle diarie per le trasferte, e naturalmente non aveva dubbi che del licenziamento fossero responsabili proprio i lavoratori stessi, che secondo lui volevano quei 30 euro per fare “un pieno di champagne”. Va detto che nelle pagine interne della stessa “Stampa” dei cronisti scrupolosi lo smentivano e ammettevano che quei presunti privilegiati avevano vinto concorsi regolari e severissimi.

lunedì 6 ottobre 2014

IL GRANDE RALLENTAMENTO DELLO SVILUPPO CINESE di Vincent Kolo





IL GRANDE RALLENTAMENTO  DELLO SVILUPPO CINESE
di Vincent Kolo




I segnali che la gigantesca bolla immobiliare è alla fine smentiscono i dati ottimistici di Pechino sul PIL

Il grande rallentamento

Il 16 luglio il governo cinese ha pubblicato i suoi dati sul PIL per il secondo trimestre, facendo tirare ai mercati finanziari globali un sospiro di sollievo in quanto è stata annunciata una crescita del 7,5%. Tuttavia questa cifra (i dati di Pechino sul PIL sono notoriamente soggetti a manipolazioni) non segnala che la seconda economia più grande del mondo si e ‘stabilizzata’. Questa è stata ‘una ripresa, sulla carta’ – ha osservato Keith Bradsher – corrispondente da Pechino per il New York Times (16 luglio 2014). Come la relazione Bradsher sottolinea, ‘inchieste indipendenti di imprese in tutta la Cina mostrano che, in un settore dopo l’altro, vendite e fiducia stanno peggiorando ancora’.

L’aumento statistico, da una crescita del 7,4% su base annua nel primo trimestre, è stato conseguito principalmente con l’aiuto di un altro ‘mini incentivo’. Come le misure analoghe lo scorso anno, ciò è stato fatto passare in maniera furtiva dal premier Li Keqiang e dai suoi esperti di economia, che ufficialmente aderiscono alla linea: ‘basta incentivi!’ Le ultime misure di Li comprendono spese supplementari per l’edilizia abitativa pubblica e le costruzioni ferroviarie – il 32% in più nel mese di giugno rispetto all’anno precedente – e un pacchetto di tagli fiscali e di misure di credito più flessibile (riserva obbligatoria inferiore per alcune banche minori) per promuovere il settore delle piccole imprese.

LA CGIL DEVE ROMPERE CON IL PD ALTRIMENTI L'ASPETTA UN'ALTRA TERRIBILE SCONFITTA di Giorgio Cremaschi







LA CGIL DEVE ROMPERE CON IL PD ALTRIMENTI L'ASPETTA UN'ALTRA TERRIBILE SCONFITTA
di Giorgio Cremaschi



In una intervista a Il Manifesto Sergio Cofferati sottolinea la differenza tra la mobilitazione da lui guidata, con successo, nel 2002 contro il tentativo di Berlusconi di colpire l'articolo 18 e quella promossa oggi dalla CGIL . Allora si univano opposizione sociale e opposizione politica oggi, dice Cofferati, bisogna mobilitare il popolo del centrosinistra contro chi lo rappresenta al governo. È vero, ma così non si sottolinea solo una difficoltà ma una contraddizione. Il collateralismo tra CGIL e PD è un dato di fatto e che esso sia avvenuto soprattutto tra il gruppo dirigente sindacale e l'attuale minoranza di quel partito non cambia la sostanza. Anzi la aggrava perché dà spazio al qualunquismo di potere di Renzi e della sua banda.

Quando l'attuale minoranza del PD era maggioranza e sosteneva il governo Monti, la CGIL ha lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni d'Europa e la prima gravissima modifica dell'articolo 18. È stato infatti il governo dei tecnici, con il consenso di CGIL CISL UIL, ad aprire la via alla sostituzione della reintegra con il risarcimento monetario nel caso di licenziamento ingiustificato. E già abbiamo centinaia di licenziamenti che il giudice ha riconosciuto come ingiusti, che nel passato avrebbero avuto come conseguenza il ritorno del lavoratore colpito nel suo posto di lavoro, e che invece oggi si concludono con un po' di soldi che non compensano certo un futuro di disoccupazione. È chiaro che Renzi vuole andare oltre, abolendo sostanzialmente la reintegra e soprattutto, come ha più volte dichiarato, togliendo ogni ruolo ai giudici. Che per lui come per ogni reazionario non debbono più ingerirsi nel rapporto tra impresa lavoratore: lì ci deve essere solo il mercato, non il diritto. Susanna Camusso ha colto la gravità dei propositi del segretario del PD capo di governo, ma cerca di chiudere un portone che ha lasciato spalancare. Se la CGIL avesse lottato sul serio contro Monti e la riforma Fornero delle pensioni, e allora c' erano tra i lavoratori consenso e forza sufficienti, oggi non subirebbe impaurita gli sberleffi di Renzi, e soprattutto sarebbero i lavoratori a reagire. L'abilità manipolatrice permette invece al presidente del consiglio di esercitare una operazione in totale malafede, ma non per questo poco efficace. Il capo del governo mette assieme il dilagante scontento in tutto il mondo del lavoro verso la passività di CGIL CISL UIL, che per me è sacrosanto, con la vandea reazionaria di chi sostiene che il sindacato ha rovinato l'Italia. Lo può fare perché la CGIL, soprattutto in questi anni di crisi, si è ritirata dal conflitto per paura di perderlo. Così Renzi accusa di essere fermi agli anni 70 gruppi dirigenti sindacali che per primi hanno messo in discussione le pratiche e la cultura di quel decennio e che per primi in ogni riunione premettono : non siamo più negli anni 70!

Sergio Cofferati probabilmente ricorderà che in un congresso della CGIL di quasi venti anni fa con Claudio Sabattini fu posta la necessità della totale indipendenza della CGIL dal quadro politico. Quella scelta non fu fatta e ora il collateralismo da condizione di sopravvivenza diventa un danno. Renzi può vantarsi: noi con la CGIL non c'entriamo niente anzi, ma Susanna Camusso non può rompere con il PD. Se lo facesse, per i promotori del jobsact sarebbe un colpo ben più duro che quello di uno sciopero generale. Ma ripeto, con l'attuale intreccio tra sistema politico e sistema sindacale, che percorre tutto il paese, Camusso non potrebbe dire basta con il PD neppure se lo volesse.

Ma la questione non é solo di rapporti politici. Ancora una volta la CGIL deve verificare che il patto tra i produttori, cioè quell'accordo tra i rappresentanti delle forze produttive con il quale condizionare la politica che il gruppo dirigente sindacale persegue da anni, quell'accordo non esiste. Dalla Confindustria alle banche alle cooperative, tutto il sistema delle imprese ha mollato la CGIL e si è schierato con Renzi. CISL e UIL naturalmente han fatto lo stesso. Eppure solo il 10 gennaio di quest'anno si era firmato un testo sulla rappresentanza, per me liberticida, che veniva presentato come il nuovo avvio della stagione delle regole.

Anche sul merito dei provvedimenti del governo la CGIL non riesce ad avere una posizione senza contraddizioni. Come si fa ad accreditare la positività del contratto a tutele crescenti, quando è chiaro che con esso passa il principio che si é termine in ogni istante del rapporto lavorativo, perché in ogni momento si può essere licenziati ingiustamente e mandati casa? Anche la FIOM qui ha preso una cantonata.

Non credo che si possa davvero lottare contro la svolta reazionaria di Renzi, ispirata da Draghi e Marchionne, con il peso di tutte queste contraddizioni sulle spalle. Non credo che si possa ottenere un risultato restando in continuità con un modello sindacale che ha accumulato solo sconfitte. Renzi fa il gradasso e prende in giro la CGIL perché conta di aver sempre di fronte il solito sindacato rassegnato al meno peggio. O i sindacati, la CGIL, cambiano rapidamente e nella direzione esattamente opposta a quella seguita negli ultimi trenta anni, rompendo con il PD e con il sistema di potere che sostiene il governo, oppure sarà un'altra terribile sconfitta. Che ricadrà tutta sulle condizioni di un mondo del lavoro che già sta precipitando verso i livelli più bassi d'Europa.


2 ottobre 2014


dal sito Contro la crisi

 
La vignetta è del Maestro Mauro Biani





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